Alessio Lega Nella corte dell`Arbat
2019 - Squi[libri]
“Quando Okudžava se ne andò, la notte era passata, ma il sole non era ancora sorto. Nacque a Mosca nel 1924 da padre georgiano e madre armena. I genitori erano attivi membri del partito comunista, coinvolti nel grande processo rivoluzionario intrapreso nel ’17, che se li mangiò: il padre fu fucilato come traditore nel ’37, la madre passò vent’anni nel Gulag. Bulat Okudžava crebbe come un figlio dei nemici della Patria, e quando la guerra venne a bussare partì volontario, barando sui suoi 17 anni, per riscattare il suo nome. Fu ferito, tornò a casa con gli occhi aperti. Un uomo piccolo, magro, con una piccola voce, quasi insignificante, che scriveva poveri versi ironici ma non comici, tristi ma non drammatici e che cominciò ad accompagnarli a melodie che sembravano provenire dal folklore. Fu una rivoluzione culturale: nasceva la canzone russa e si propagava di orecchio in orecchio, di registratore in registratore, perché quelle canzoni non potevano essere stampate”
Meglio di così davvero non saprei dire. Ecco perchè faccio mie le parole con cui Alessio Lega tratteggia Bulat nel sapido librino che accompagna il suo nuovo cd. Nella corte dell’Arbat, si intitola (Arbat è un quartiere di Mosca), ed è un disco monografico: riassume in 20 tracce l’ampio specifico di Okudžava. Ne evoca, per così dire, l’aura politico-poetica. I sensi impliciti ai suoi versi, sulla traiettoria di quattro direttive tematiche: Guerra. Mosca. Arte. Ontologia (compresa quella socio-politica). Alessio Lega rende (in)somma giustizia a un precursore della canzone russa, il suo lavoro non suona sterilmente pedissequo, così come non suonavano pedisseque le traduzione di Fabrizio De Andrè di Villon e di Brassens. O quelle degregoriane di Dylan e di Cohen, se mi spiego. Fermo restando che cimentarsi col russo non è come cimentarsi col francese, e nemmeno con l’inglese.
Alessio Lega riesce dunque in qualcosa di sorprendente (ma nemmeno poi tanto, per chi lo conosce e lo apprezza da tempo), rivelando nell’ordine: 1) affinità teleologiche con Okudžava, 2) capacità mimetiche non genuflesse al genio, 3) capacità di restituzione della lingua interiore – mai scopertamente polemica e nemmeno dolente, ironica e riflessiva piuttosto - delle ballate okudzaviane.
Ballate semplici seppure capaci di sotto-testi sottili. Di rimandi. Di allegorie. Di sedimento. Di malinconie. Sublimate nel linguaggio poetico che è dei poeti veri. Quelle inserite in scaletta e tradotte-cantate-suonate da Lega sono canzoni d’amore e di guerra. Canzoni d’amore, di morte ed altre sciocchezze, parafrasando il bardo italiano Francesco Guccini (si parva licet).
Vicende minime di anti-eroi minimi, in grado di assurgere a statuti universali. Sorrette da melodie la cui eco folklorica russa si percepisce a orecchio. Come l’assoluta capacità espressiva. Tre rapidi stralci. Dalla suggestionante traduzione di Lega:
“E tu padre mio fucilato che cosa hai pensato di me/ Che con la chitarra ero andato, ma vivo e non chiedo il perché/ Come nella notte di Mosca scendendo nell’intimità/ Quasi che poi ci si conosca noi vecchi figli dell’Arbat” (Canzone dei ragazzi dell’Arbat, 1957).
“Mozart intona un violino malmesso/ Mozart inizia e il violino cantò/ Mozart ignora la patria e se stesso/ Suona volando e già mette il paltò/ Tanto il destino è un padrone maldestro/ Festa o fucile, lo sceglierà lui/ Non smetta mai di provarci, Maestro / Mentre si appoggia sugli angoli bui” (Mozart, 1969).
“Non sentiremo più la vita appesa a un filo/ Gli amici torneranno dall’eterno esilio/ E Mosca fiorirà dai suoi selciati grigi/ Fra un po’ si svuoterà pure Parigi/ Ma se non va così, se fu un’assurda sfida/ Che mi perdoni Dio, mio figlio mi derida/ Ho aperto le ali per il cielo degli umani/ Della speranza ho fatto il mio domani” (Perestrojka, 1988).
Nella corte dell’Arbat è, in ultima analisi, un disco di vivace caratura filologica. Un disco propedeutico e controtendente, in questo tempo di sguardi appannati e teste dure di comprendonio. Da non perdere.