A.a.v.v. Festival in the desert
2003 - TRIBAN UNION / WORLD VILLAGE
L’Africa, e le sue musiche, sono invece quanto di più lontano ci possa essere da tutto ciò. Ne è esempio “Festival in the desert”, registrazione di un concerto tenutosi a Essakame, nel Mali, proprio nel cuore del deserto. Per quanto la musica e gli artisti sul palco ospitino musicisti europei e americani, il cd risulterà alquanto ostico all’ascoltatore europeo, anche con una buona cultura musicale.
Il maggior pregio di queste venti tracce è di smentire il presunto fascino delle musiche africane: la vera musica dell’Africa non è una musica facile, soprattutto per un orecchio occidentale.
Se i ritmi ansimanti, quasi ossessivi, delle voci di “Tihar Bayatin” e di “Ihama” possono esserne considerati gli esempi estremi, basta considerare l’iniziale “Super 11” per percepire una musica che è esperienza da vivere coralmente più che da ascoltare individualmente: ogni traccia si sviluppa sulla ripetitività delle parti ritmiche e vocali, che si muovono parallelamente fino a creare un coinvolgimento vicino alla trance. È qualcosa di simile agli effetti provocati dal blues (che non a caso dall’Africa ha origine), ma in maniera più ipnotica, più primordiale e mistica.
Ci sono episodi accessibili, come “Win My Train Fare Home” con Robert Plant, ma tutti i brani riconducono ad una forma ostica, ad un corpo unico che non si fonda su crescendi: è l’opposto della musica occidentale, basata sullo sfogo tra strofa / ritornello / ponte, per questo sempre bisognosa di vie d’uscite, di deviazioni, di “novità”.
Anche gli artisti già noti nel nostro emisfero, come Oumou Sangare e Alì Farka Tourè, si esibiscono seguendo questa forza spontanea, la stessa che per questo evento ha attirato musicisti, gruppi, carovane e tribù da luoghi relativamente limitrofi, considerando le condizioni difficoltose di spostamento nel deserto.
La non altissima qualità sonora della registrazione contribuisce a comunicare quello spirito nomade e libero, proprio dei Taureg e non solo, che trova la sua espressione naturale, istintiva, nello scorrere della musica: dalle parti rap di un ensemble francese ad una corale di dieci uomini e dieci donne, dal duetto del nostro Ludovico Einaudi con un suonatore di kora al chitarrismo di stampo rock di Baba Salah e dei Navajo Blackfire. La giusta conclusione spetta alla voce di Django, capace di evocare le distanze ancestrali dei fuochi nel deserto. Ma qua non ci sono né inchini finali, nè cartoline, né souvenir: qua c’è l’Africa.