Kim Ki-duk Pieta
2012 » RECENSIONE | Drammatico
Con Cho Min-soo, Lee Jung-jin
09/11/2012 di Paolo Ronchetti
Per leggere Pieta (senza accento così come Bella Addormentata è senza articolo), il controverso lavoro del maestro coreano Kim Ki-Duk premiato con il Leone D’oro in questa 69esima edizione veneziana, non basta aver visto quasi tutti i suoi film e neanche aver visto l’autobiografico Arirang con cui il regista coreano ricominciava a filmare dopo il tremendo crollo nervoso avvenuto nel 2008 durante le riprese di Dream.
In Arirang però possiamo trovare qualche traccia, o meglio, delle coordinate di base rispetto a questa fase della carriera artistica di Kim Ki-Duk: “Ma in sostanza che cosa sono gli esseri umani, la vita, i film? Qual è la cosa più importante della tua vita? Secondo me la vita è sadismo, auto-tortura e masochismo. Si torturano gli altri, siamo torturati e torturiamo noi stessi. Alla fine molti si accontentano dell’auto tortura, vero? …Amore odio disprezzo perdono comprensione… abbiamo bisogno di tempo per guarire dal dolore, dall’odio e per perdonare… In fondo penso che la natura umana sia auto tortura sadismo e masochismo. Ecco perché faccio film, voglio fare emergere questo. Che il bianco e il nero sono lo stesso colore, la verità è che combattiamo una lotta interiore. Quello che voglio dire è che la vita umana è insignificante. E la felicità, in una cosa insignificante, è nulla!”. Questo il(un) condensato dell’auto-intervista che compare intorno a metà Arirang.
Pieta è diretto figlio di queste affermazioni? In gran parte naturalmente sì. Ma in aggiunta ci troviamo davanti ad una scrittura e ad una regia così spiazzante che riesce a nascondere le inevitabili crepe di un autore che, pur partendo dall’essere sceneggiatore, è sempre stato più capace di legare in maniera forte il visivo alla nostra mente che di coerenza interna le storie dei suoi film.
L’immaginario creato rende tutto così altamente incredibile che non si riesce a tenere il giudizio al di fuori delle azioni filmate, con la conseguenza di non poter analizzare con lucidità nulla nell’immediato, se non, eventualmente, nei termini del rifiuto. In molti, infatti, hanno raccontato della fatica del “rimanere”, non importa se con gli occhi aperti o meno, dei primi dieci minuti di proiezione.
Kim Ki-Duk non ci risparmia apparentemente nulla ma l’azione violenta, pur facendoci spesso chiudere gli occhi per l’orrore, non è mai completamente mostrata. Si chiude gli occhi, come accadeva nel secolo scorso per il maestro Alfred Hitchcock, per l’idea di ciò che accadrà più che per quello che sarà mostrato. In fondo questa è la conferma di quanto forte e consapevole sia l’azione registica di Kim Ki-Duk e di quanto, probabilmente, quella della giuria veneziana sia stata una scelta corretta.