Ken Loach Sorry we missed you
2019 » RECENSIONE | Drammatico
Con Kris Hitchen, Debbie Honeywood, Rhys Stone, Katie Proctor, Ross Brewster
03/01/2020 di Silvia Morganti
L’umanità dolente, schiacciata dal lavoro disumano di cui i nostri tempi sono testimoni e artefici, è rappresentata dalla famiglia Turner: padre, madre, un figlio e una figlia. La famiglia è il microcosmo attorno a cui il film ruota: i sentimenti sono come tenuti sotto la pressa della quotidianità, divorata dal ‘tempo del lavoro’, e sono destinati per questo a saltare.
L’inizio è un quadro nero, si ascoltano le parole di un colloquio, il protagonista Ricky (Kris Hitchen) sta per essere assunto, o meglio a farsi promotore di se stesso. “Non lavorerai per me. Lavorerai con me” sottolinea il datore di lavoro, e le preposizioni indicano in realtà la falsità di cui è intrisa l’affermazione. Ricky lavorerà per una ditta di consegna di pacchi, dovrà procurarsi l’automezzo, entrerà dentro un sistema senza protezioni, alienante, traditore di ogni diritto. Si lavora solo per far arrivare celermente i pacchi a domicilio ad una galleria di acquirenti inquietante, in cui gli spettatori possono non faticare a riconoscersi. L’indifferenza è il male peggiore (“qualcuno ti chiede mai come stai?”)! Ognuno cerca nella merce il valore.
Le persone sono solo travolte da ingranaggi della società contemporanea che Loach sa rappresentare candidamente come se ogni volta nascondesse la telecamera tra le pareti della quotidianità. La denuncia è evidente: i fatti parlano da sé. La ditta di consegne, la “PDF”, tanto somiglia ai giganti delle vendite on line come Amazon, trasporta merce in tempi rapidi e gli addetti sono estensione disumanizzata di un processo arido e triturante.
All’opposto la moglie Abbie (Debbie Honeywood) incarna la sensibilità perfetta: assistente domiciliare non lascia che le persone vivano il disagio della loro condizione di anziani o malati non autosufficienti. Ha pazienza, gentilezza, si prende cura con un amore e una dolcezza verso il prossimo che travalica il ‘senso del dovere’ che la contraddistingue. Le sue ricompense sono umane, ma anche nel suo caso il lavoro non è remunerato adeguatamente (pagata ad ore), le sue giornate sono faticose e non conosce alleggerimenti. Dove sono finiti i diritti dei lavoratori? Perché la crisi del 2008 ha permesso che si divorassero conquiste sociali acquisite dopo secoli di lotte? Quale battaglia ci aspetta?
I figli sembrano pagarne per primi le amare conseguenze. Contrapposti tra luce (la bambina Liza Jane, Katie Proctor) e ombra (il ragazzo Seb, Rhys Stone) presentano per primi il conto ai genitori: la vita è lì, tra quattro pareti, davanti ad una tazza di thè, in stanze dalle dimensioni ridotte. L’amore sembra non emergere, a favore dello scontro, sorretto da una stanchezza che incarna tutto il peso dell’esistenza.
Loach anche questa volta riprende con la sua maestria di regista d’impegno sociale, lascia che gli eventi accadano inesorabilmente, i suoi protagonisti risultano veri, la vita appare in tutta la sua dolenza. Il film ricorda con un salto epocale il disincanto della stagione neorealista, in particolare il capolavoro di De Sica Ladri di biciclette del 1948: il mezzo di trasporto che è condizione necessaria ad ottenere il tanto agognato lavoro è cambiato – la bicicletta allora, il furgone oggi – ma la povertà è identica. La stessa amarezza e senso di sconfitta si ritrovano davanti all’ingiustizia sociale. Lo stesso amore tra padre e figlio, anche se oggi molto più complicato di allora.
Loach impressiona per la sua capacità di lettura del presente, con un occhio che non trascura mai il passato. Nelle pieghe di un discorso che i due genitori compiono sul cellulare del figlio adolescente – ribelle, fuori dalle regole, fragile – sa interpretare come in quell’oggetto della contemporaneità sia racchiuso tutto l’universo del ragazzo (è lui stesso!) e privarlo di esso equivale spegnere/disattivare la sua stessa vita.
La particolarità di Loach è che risulta tra i più critici della società contemporanea semplicemente mostrando la realtà per quello che è, senza veli e senza reti. La potenza dell’orrore che ci circonda non conosce amplificazione, toni forti o enfatizzazione; semplicemente è rappresentata. Anche la scelta di utilizzare la quasi totale assenza di musica o di riprese dall’alto confermano il punto di vista adottato. Siamo tutti lì dentro!