Sue Foley Pinky ` s Blues
2021 - Stony Plain
Canadese di nascita, Texana d’adozione fin dalla fine degli anni ’80, ha trovato facilmente il suo posto nella rovente scena blues di Austin grazie a un talento chitarristico effervescente, a una voce dolce e femminile che insieme all’intrigante rosso dei capelli, contrasta efficacemente con l’ironica energia delle sue performance… Sue Foley non è mai stata di quelle artiste che tendono ad attirare l’attenzione usando “scorciatorie” come scollature e minigonne (nonostante una certa innegabile generosità di madre natura), e si è guadagnata la fratellanza dei più grandi artisti texani semplicemente grazie alla propria classe ed alla propria bravura. Ad Austin la trovate facilmente sui palchi (e sui dischi) insieme a gente come Chris Layton (batterista di Stevie Ray Vaughan & the Double Trouble, Arc Angels, Storyville, Kenny Wayne Shepard e mille altri, e che suona nel suo inconfondibile stile su tutto il disco), Billy Gibbons (ZZ Top), Mike Flanigin, Charlie Sexton (Bob Dylan Band e Arc Angels) e il già citato Jimmie Vaughan.
A pensarci bene il Texas (e Austin in particolare) sembra essere per il blues quello che Nashville è per un certo modo di fare classic rock: un’isola felice in cui si continuano a produrre perle che suonano ed emozionano come i grandi classici di oltre settant’anni fa che hanno fatto innamorare il mondo di certe musiche; in cui si continuano a registrare dischi in presa diretta, live in studio, quattro persone in una stanza, luce rossa e via a suonare scegliendo a posteriori, semplicemente, la take (esecuzione) migliore,,, che poi è quasi sempre ricompresa tra la prima e la terza. Nel mondo musicale di oggi questo equivale a un pianeta di una galassia lontana, una Atlantide mitica in cui l’errore nell’esecuzione, catturato dai microfoni, viene lasciato nel mixaggio e poi sul disco, a conferire carattere e a testimoniarne la debordante umanità. D’altra parte, quando un’esecuzione da lui prodotta in studio veniva perfetta, Willie Dixon gliela faceva risuonare, alla ricerca di quel particolare che la rendesse unica. Come il neo di Marylin Monroe… Questo disco non fa eccezione.
La Pinky del titolo è la Fender Telecaster rosa a tema “paisley” da cui è letteralmente inseparabile (molto difficile vederla con altre chitarre elettriche al collo) che da sempre costituisce la base del suo suono e che merita al 100% l’onore del titolo di quest’album per il fatto di esserne il baricentro indiscusso. Complice la produzione superlativa del già citato Mike Flanigin, hammondista d’eccezione. Ecco, qui serve una piccola divagazione: Flanigin fa parte del trio con cui Jimmie Vaughan ha inciso il meraviglioso “Live at the C-Boys” pubblicato nel 2017 con un suono spaventosamente bello. Quello stesso suono, crudo e live, viene riportato in questo disco di Sue Foley grazie alla mano sapiente di Chris Bell che lo ha registrato mixato e masterizzato. Non si tratta di un suono nuovo, ma di una piacevole costante delle produzioni tradizionaliste degli ultimi vent’anni: il suono di un pugno di musicisti in una stanza con gli strumenti ripresi “da lontano” insieme al riverbero naturale dell’ambiente. Insomma, il suono, sviluppato con il fonico Mike Piersante, su cui T-Bone Burnett ha basato buona parte della sua carriera.
Come dicevamo, Pinky’s Blues è – fin dal titolo – un omaggio alla Telecaster che da sempre accompagna l’avventura musicale di Sue Foley, quindi non sorprende che le sia riservato l’onore di aprire il disco con lo strumentale che da il titolo al disco, e che ne è anche il manifesto sonoro: tre musicisti in una stanza, qualche microfono, il registratore su “REC” e via a improvvisare. E buona la prima, errori e sbavature incluse.
Il resto del disco si snoda tra immancabili Texas shuffle, da quelli più lenti e minacciosi (Two bit Texas) quelli più “uptempo” (Dallas man), ballate tra soul e gospel (Think it over, impreziosita dall’organo di Mike Flanigin, che la rende perfetta anche per le vostre playlist di Natale), Chicago style alla maniera di Elmore James (Hurricane girl) ma con il rullante inconfondibilmente texano di Chris Layton, la rumba “malata” di Southern men, il jump Boogie real low.
Il disco si chiude, in maniera circolare, con lo strumentale Okie dokie stomp di Clarence “Gatemouth” Brown, punto fermo – da sempre – dei concerti di Sue Foley e con il quale in gioventù deve aver fatto penzolare più di qualche mandibola a tanti colleghi maschi.
È innegabile che, a parere di chi scrive, il focus del disco stia nel suono (non si era capito, vero?) e nelle performance (amici musicisti, ascoltate con attenzione: c’è davvero tanto da imparare), e che le canzoni siano quasi secondarie. Ma in un’epoca di pubblicazioni spacciate per blues e purtuttavia infestate da distorsioni e “big drums”, un disco di questa caratura e con questo suono è una boccata d’aria fresca, che lascia ben sperare per il futuro del genere.