Steve Earle GHOST OF WEST VIRGINIA
2020 - NEW WEST RECORDS
#Steve Earle#Americana#Bluegrass & Old Time #The DUKES #Jessica Blank ed Erik Jensen #Tony Fitzpatrik
Per certo di Ghost of West Virginia se ne riconosce, da subito, la chiarezza del proposito, quello di costringere lo sguardo su un punto preciso di storia americana, su un evento passato, tanto documentato quanto volatile. Il lavoro si muove infatti nella memoria dell’orribile disastro minerario avvenuto nel 2010 presso l’Upper Big Branch, della Massey Energy, West Virginia, contea di Raleigh. Ventinove minatori rimasero uccisi, arsi vivi da una fuga di metano. Se si parte da qui si deve anche aggiungere che la musica di Ghost of West Virginia non nasce, solo, dall’ispirazione del cantastorie, dalla sua sensibilità, ma soggiace all’intenzione teatrale di Coal Country, il dramma scritto da Jessica Blank ed Erik Jensen e andato in scena (forse) a New York per tutto il mese di Marzo. Il dramma ha inanellato le interviste realizzate con i minatori sopravvissuti al quel disastro, i dialoghi con le loro famiglie. Steve Earle sta fisicamente sul palco, canta i brani di Ghost of West Virginia in mezzo al muoversi degli attori. Si percepisce allora come lo sforzo del lavoro sia l’esito congiunto di dimensioni artistiche affini ma differenti. Suono e parola, verso e discorso. C’è n’è abbastanza per discostarsi dall’esprimere su Ghost of West Virginia un giudizio di merito gerarchico nella produzione di Steve Earle. Per certo il disco è uno dei suoi lavori più sentiti ed accorati, molti hanno riportato la sua dichiarazione che definisce Ghost of West Virginia "un coro greco con una chitarra”. Molto vero, l’arte greca era espressione di musica, di poesia, di tragedia teatrale, insieme. Onorava, nel ditirambo, le gesta di dei, eserciti ed eroi. In Ghost of West Virginia eserciti, eroi, hanno casco e piccone, quelli ben rappresentati nella copertina che anche questa volta è affidata all’estro colorato di Tony Fitzpatrik. Degli dei dell’Olimpo meglio non dire, al solito sono ciechi sulle più banali norme di sicurezza. Quando si parla di disastri minerari le cifre, per quanto ballerine, dicono che tra inizio e metà ‘900 sono state decine di migliaia i lutti sul lavoro. Molti sono stati italiani. Anche oggi, con venti, trentamila infortuni l’anno, lavorare in miniera è ancora una attività tra le più pericolose e insalubri. Eppure nessun monumento ai minatori, nessun altare votivo, nè giornate del ricordo.
A voler essere cinici, la strage dell’Upper Big Branch non è stata nè la più famosa nè la più orribile. Solo per citarne uno di disastri, a Monongah, nel 1907, sempre in Virginia, sotto ci rimasero in trecento. Risparmiarono sulla ventilazione. Ciò che però accomuna questo come altri, innumerevoli eventi, alla tragedia di Upper Branch è un medesimo copione: la mancanza, colpevole, di ogni considerazione per la vita altrui. Un filo comune lega l’amarezza di Everett Francis Briggs - il sacerdote cattolico statunitense, parroco della Chiesa di Nostra Signora del Rosario di Pompei a Monongah scomparso nel 2006 che spese l’intera esistenza nella ricerca di verità di quella strage di inizio ‘900 - all’esercizio di memoria di Ghost of West Virginia. Diversa, rispetto a Monongah, è l’amara consapevolezza di Steve Earle e soci che il settanta per cento degli aventi diritto in Virginia ha tuttavia votato per l’amministrazione Trump. Il biondo che spinge, anche l’industria mineraria, ad aumenti incontrollati di produzione e utili, le cause vere di tutte le stragi. All’Upper Big Branch non c’era rappresentanza sindacale, il suo amministratore delegato, aperto sostenitore della destra, incurante dell’ambiente, citato più volte in giudizio per violazioni sulla sicurezza è noto per avere corrotto la corte suprema del West Virginia. Comportamento non diverso dai proprietari delle miniere di carbone del secolo scorso. Sebbene molto ancora ci sarebbe da aggiungere sul lavoro in miniera - in America e non solo - ciò basti per incorniciare il disegno di Ghost of West Virginia.
La sua musica, speriamo si sia compreso, è figlia di un posizionamento, politico, orientato, di Steve Earle. In piazza trascina anche l’affidabile congrega dei Dukes, per una manciata di brani che oscillano tra le molte, possibili, sfumature della ballata, informata di blues, di bluesgrass, di rock & American Roots. Sostenitore non da ora di cause ambientali e sociali, Steve Earle si muove con agio nel discorso lefty & radical avendo come riferimento, il più illuminato Woody Guthrie piuttosto che i santi ispiratori di sempre: Townes Van Zandt e Guy Clark.
"Devil Put The Coal in the Ground”, "Black Lung”, “It’s About Blood” gridano, "Heaven Ain’t Going Nowhere”, “Time is Never on Our Side”, “If I Could See Your Face Again” “The Mine” stanno sul lato della guarigione e della preghiera. La rilettura di "John Henry” è convincente, levigata dal tempo, impreziosita, rinnovata nel testo da nuovi apporti che spostano il protagonista dalla rotaia alla galleria del diavolo. E’ il lavoro più autentico che possa fare il cantastorie della contemporaneità. Ogni memoria del passato ha senso se parla al Noi del presente e Ghosts of West Virginia prova a parlare ai suoi concittadini tentando di colmare la distanza tra le pulsioni populiste dell’operaio bianco e la riflessione progressista sulla necessità di una rinnovata consapevolezza di classe. Il disegno è impervio ma almeno si prova a non cullarsi nella mitologia di un immaginato sol dell’avvenire sporco di carbone. La musica è un ottimo veicolo. Lo sapeva Joel Emmanuel Hägglund, il Joe Hill minatore, sindacalista, che credeva nella musica come mezzo di comprensione, di coesione, di lotta, lo sapeva Emma Goldman, naturalmente Woody Guthrie ma anche gli Springsteen, i Ry Cooder e molti altri. E dunque, Ghosts of West Virginia è il miglior album di Steve Earle ? No, solo un necessario, grandissimo album.