Ryley Walker Primrose Green
2015 - Dead Oceans
L'epitome musicale del disco, ovvero il pezzo omonimo (in realtà un termine familiare usato per un cocktail dalle proprietà “sognanti”), è come sospeso in un sogno di buckleyana memoria, ma qualcosa è fuori posto, le sonorità richiamano tanto la psichedelia folk californiana quanto un certo folk barocco di matrice Pentangle, la voce di Ryley non emerge nella duttilità ma nella sincera espressività emozionale che traspare e si integra in un tutt'uno con le ispirate parti di chitarra elettroacustica e il piano “creativo”di Ben Boye.
Dopo l'incerta collaborazione di qualche anno fa con Daniel Bachman e il buon esordio solista di All Kinds of You (2014), Ryley aveva già evidenziato interessanti capacità musicali, ma questo pezzo è già ben oltre qualsiasi cosa sentita in precedenza.
Le note del vibrafono annunciano le lucenti suggestioni allucinogene di Summer Dress (scritta in uno spogliatoio di New York), un intrigante e caotico folk jazz degno di Starsailor, a seguire, l'incedere ipnotico di Same Minds e il decollo emotivo di Sweet Satisfaction, con complesse parti di fingerpicking, trovano territori vocali vicini al John Martyn di metà anni settanta e Griffith Buck's Blues, omaggio strumentale a un musicista compaesano, brilla di vivaci colori irlandesi.
Di contro l' anonima Love Can Be Cruel, gli eccessi Solid Air-oriented di All Kinds Of You e le ripetitive odi romantiche che avvolgono Hide in the Roses, perdono un po' quel fascino intrinseco che accompagna il resto del disco.
In questo senso non deludono il country lisergico dai temi religiosi di On The Banks of the Old Kishwaukee e in particolare The High Road, scritta in tour, con il mirabile contributo di Whitney Johnson alla viola, che poggia su una melodia circolare, su fitti arpeggi della chitarra acustica e sulla voce solenne di Ryley.
Se da un lato le composizioni e le virtuose parti di chitarra (in fingerstyle) rispecchiano le aspirazioni di Ryley Walker: “i miei pezzi devono avere qualcosa che non mi dispiace rivisitare e rivedere molte volte, e una bella melodia”, dove la sensibilità jazz gioca senza sosta nel creare un mix globale che, ai ripetuti ascolti, si fa sempre più suggestivo; dall'altro, mostrano, nella sua ispirata concezione, il “citazionismo”quasi mai sterile di Primrose Green, che sembra beneficiare di equilibri formali e connotati, a tratti, commoventi.
In definitiva questo disco, nella sua voglia cristallina di evasione e libertà espressiva, è riuscito ad evocare così tanti gloriosi e leggendari marchi di fabbrica che, alla fine, inconsapevolmente, se ne ritrova in mano uno proprio, certamente molto meno fulgido dei predecessori ma comunque degno di essere apprezzato.
Se amate il folk psichedelico e barocco degli anni d'oro non fatevi sfuggire questo disco.