Pulin And The Little Mice Hard Times Come Again No More
2014 -
Un vero e proprio “viaggio a sette note” - facendo ricorso alla definizione fornita dalla stessa band - realizzato attraverso undici differenti episodi costituiti da rivisitazioni di brani appartenenti, in maggior misura, alla tradizione musicale irlandese e nordamericana, in un continuo andirivieni tra le due sponde dell’Oceano Atlantico, seguendo in fondo il percorso che molte di queste canzoni hanno davvero compiuto nei secoli scorsi insieme alle migliaia di migranti che attraversarono l’Oceano alla ricerca della loro Terra Promessa in un viaggio della speranza raccontato non solo nei libri di storia, ma anche nelle pagine di grandi autori della letteratura passata (si veda il Robert Louis Stevenson di Emigrante per Diletto) e presente (obbligatorio il riferimento allo splendido Stella del Mare di Joseph O’Connor).
Un’operazione realizzata grazie non solo all’evidente passione che si percepisce dall’ascolto dall’album, ma anche ad una capacità tecnica decisamente superiore (tutti i quattro componenti della band sono, di fatto, polistrumentisti che si cimentano con un ampio campionario di strumenti propri della tradizione musicale europea e americana, garantendo così un ampia varietà di sonorità alla loro musica) e ad un approccio addirittura filologico alla materia trattata (si vedano, al riguardo, le note di presentazione dei singoli brani pubblicate sulla pagina Facebook della band in cui vengono riportate dettagliate notizie sui brani stessi e sui loro autori ed interpreti storici) che non porta però a riletture didascaliche dei brani originali, ma consente alla band riletture sempre personali ed originali.
Un progetto non privo di rischi, peraltro, considerando che tra i brani selezionati si trovano alcuni tra i più celebrati standard della musica popolare americana ed irlandese, che, nel corso degli anni, sono stati interpretati da personaggi di primissima grandezza (senza approfondire troppo la ricerca e dimenticando certo qualcuno per strada, si potrebbero citare Christy Moore, i Dubliners, Woody Guthrie, Ry Cooder, Van Morrison, Louis Armstrong e Leadbelly), che rappresentano quindi i termini di paragone con cui Pulin and The Little Mice devono misurarsi.
Una sfida che Pulin and the Little Mice affrontano e superano puntando su belle interpretazioni d’insieme (va forse interpretato proprio in questo senso il ripetuto ricorso alle armonie vocali che caratterizza diversi brani del disco, prevalendo sulle parti solistiche) ed evitando la tentazione di imitare in maniera maldestra le versioni di quegli inarrivabili interpreti.
Come accennato in apertura, sono undici gli episodi che compongono il disco, molti dei quali rappresentati da medley in cui vengono riuniti, spesso in maniera originale, se non addirittura sorprendente, due o più brani.
Davvero difficile, in un contesto decisamente omogeneo per qualità, individuare i pezzi migliori, se non affidandosi al proprio gusto personale: proprio in quest’ottica segnalo in primo luogo la bella ed essenziale rilettura di The Auld Triangle, il brano scritto da Brendan Behan (o forse dal fratello Dominic, un mistero irlandese mai risolto) per la sua opera teatrale The Quare Fellow ed interpretato in occasione delle prime rappresentazioni dallo stesso Behan, per poi diventare una sorta di inno dublinese grazie alle versioni dei Dubliners nella loro storica formazione comprendente Luke Kelly e di mille altri artisti irlandesi (ma interpretata anche da Dylan e dalla Band nella cantine di Big Pink, nelle leggendarie sessions da cui si origineranno i Basement Tapes, a proposito di termini di paragone impegnativi…).
Particolarmente riuscito appare il medley che riunisce Hard Travelin’, brano di Woody Guthrie legato alla vita dei migranti americani all’epoca della Grande Depressione degli anni ’30 a Seneca Square Dance, strumentale risalente all’epoca della Guerra di Secessione, incluso da Ry Cooder nella colonna sonora di The Long Riders, il film diretto da Walter Hill all’inizio degli anni ’80 in cui veniva rievocata la vicenda di Jesse James e della sua banda.
Sorprendente, invece, la presenza di St. James Infirmary Blues, pezzo reso celebre da Louis Armstrong: un brano legato quindi alla tradizione jazz e quindi apparentemente fuori luogo in un contesto di derivazione prevalentemente folk, ma che, invece, si amalgama a perfezione con il clima generale del disco.
Trascinante invece You Don’t Knock, gospel già nel repertorio di Pops Staples e della figlia Mavis (ma anche del Kingston Trio) giocato sul classico schema del call and response tra la voce solista ed il coro, seguita da Star of County Down, lo standard nordirlandese la cui fama è certamente legata all’interpretazione congiunta fornita da Van Morrison con i Chieftains all'epoca di Irish Heartbeat (in questa circostanza corredato da una coda strumentale proveniente dalla Francia), ad ulteriore testimonianza del ponte tracciato tra le tradizioni musicali delle due sponde dell’Atlantico.
A chiudere il disco, una bella versione pianistica di Hard Times Come Again No More, brano composto nel 1854 da Stephen Collins Foster, vero e proprio padre fondatore della tradizione del songwriting a stelle e strisce, anch’essa caratterizzata dalle riuscite armonie vocali della band savonese.
Citazione d’obbligo per i componenti del gruppo: Matteo “Pulin” Profetto, Giorgio “The Captain” Profetto, Marco “Figeu” Crea e Marco “Poldo” Poggio.
Un bell’album di debutto, che merita certo attenzione e suscita anche la curiosità di riascoltare la band, in un prossimo futuro, alle prese con un repertorio di pezzi originali.