Popa Chubby Tinfoil Hat
2021 - Dixie Frog
Lo stile dell’ormai sessantenne chitarrista e cantante newyorkese riassume in sé tutte le caratteristiche del rock blues più classico e, fra queste, anche quello che è insieme il suo più grande pregio e la sua più evidente pecca: l’essere sempre, bene o male, uguale a sé stesso. Per un appassionato vero la cosa non solo non rappresenta un problema, ma diventa un godimento, proprio come per un fanatico di vecchi noir lo è sapere già chi è l’assassino dopo poche scene o vedere l’ennesimo detective con l’impermeabile e il borsalino.
Non si sottrae alla regola, almeno in gran parte, questo nuovo ennesimo album del buon Popa Chubby. Il disco si apre con la title track, Tinfoil Hat, e a proposito di questo titolo dobbiamo fornire una curiosa spiegazione. Letteralmente, significa “cappello di carta stagnola”, ed infatti se ne può vedere uno calcato sul testone di Popa nella foto di copertina. Ma c’è dietro molto di più: l’espressione si rifà alla convinzione che un cappello di carta stagnola possa proteggere il cervello dalla lettura del pensiero e dai campi elettromagnetici. Pare che la cosa sia nata da un racconto fantascientifico di Julian Huxley del 1927, per poi entrare in qualche modo nella cultura di massa.
Significati reconditi a parte, il brano e l’album partono con un annuncio da radio libera fatto dalla voce di Popa, una cosa a metà fra Wolfman Jack (Lupo Solitario, il leggendario dj) e l’esortazione di un imbonitore. Appena partono le prime note, è tutto subito chiaro: siamo tornati a pranzo dallo Zio Popa sapendo che ci servirà il solito buon vecchio arrosto. Non manca niente: super classica progressione armonica in mi; suono fatto di basso, batteria, chitarra e poco altro; ampli a manetta, vocione cattivo, solidi e familiari frasi pentatoniche alla chitarra e, naturalmente, un riffone. Una piacevole spezia in più che si trova qui e un po’ in tutto l’album è quella di un suono e dei ritmi che virano anche verso il surf con venature vagamente dark: chitarra reverberata, scura e, da qualche parte, perfino una risata da scienziato pazzo, di quelli da b-movies anni ‘60, che echeggia.
La seconda traccia, Baby Put On Your Mask, suona come una conferma confortevole (o noiosa, a seconda dei punti di vista) della strada che ha preso l’album: ritmo surf, chitarre slide super classiche e, come direbbe un vecchio lupo di mare, “alla via così, ragazzo”.
Alla terza tappa, arriva anche l’immancabile bluesettone torrido e lento in minore: per la precisione, sempre mi, minore... E questa è un’altra cosa da segnalare: in pratica tutto l’album non si sposta quasi mai da un paio di tonalità. La cosa può sembrare ininfluente, ma in realtà, quando non ci sono particolari guizzi melodici o fantasiose variazioni, questo può dare la sensazione, dopo un po’, di ascoltare sempre lo stesso pezzo, o parti diverse dello stesso pezzo. Intendiamoci, la cosa è tipica del blues e del rock blues chitarristico. Non so formire una percentuale precisa, ma c’è una enorme quantità di classici in tonalità di mi nella storia del blues e del rock. Se guardiamo poi ai vecchi bluesman, alcuni non si sono mai mossi da lì per tutta la loro carriera: ma in quel caso parliamo di blues tout court, e il discorso è diverso. Il fatto è che qui Popa cerca, seppure restando fedele alla linea, di offrire anche delle “canzoni” vere e proprie e, magari, uno sforzo per variare un po’ non sarebbe stato una cattiva idea.
Riguardo alla terza traccia, il titolo No Justice No Peace, ci offre anche il destro per dire dei testi di Popa Chubby. Anche in questo album si conferma la sua tendenza all’impegno sociale, all’atteggiamento un po’ barricadero, protestatario. Per carità, non pensate alla qualità di un grande cantautore “impegnato”, come si diceva una volta. Tutto qui è un po’ ingenuo da quel punto di vista, ma certamente il fatto che il vecchio Popa sia coerente e battagliero fa piacere.
C’è poco altro da dire. Il disco prosegue su questo binario fatto di classicissimi rock blues, slow blues in minore con grandi schitarrate piangenti, ritmi surf e appena qualche deviazione, come nel soul di Embee’s Song o nel reggae di Cognitive Dissonance.
Insomma, se siete di quelli che al ristorante, dinanzi ad un menù con prelibatezze esotiche, dicono “ma non si potrebbe avere una pasta al forno?”, questo album fa per voi.