Orchestra Di Piazza Vittorio Sona
2006 - Radiofandango/Edel
La formazione diretta da Mario Tronco si conferma invece come un ensemble sì aperto, ma fortemente vissuto, innescato da incontri umani e culturali: a cambiare infatti in questo secondo disco sono le persone ancora prima che la musica. Più che di variazioni nella line-up bisognerebbe parlare di un’alternanza di relazioni, di scambi e di passaggi: questo ha contribuito a rendere “Sona” un disco più etnico, ma altrettanto coraggioso, suonato con lo stesso spirito di ricerca umana oltre che strumentale.
Inutile stilare l’elenco di chi è partito e di chi è arrivato, anche perché, se vi dovesse capitare di assistere ad un concerto dell’OPV, potreste trovarvi di fronte una formazione già mutata.
A parlare sono le musiche: arrangiamenti etnici e quindi brani dallo spirito tradizionale, che non perdono mai la loro valenza colta, come succede in “Fela” che contiene una citazione dell’opera “Sorrow, tears and blood”. Tra archi, fiati, kora, cavaquinho, flauti andini, percussioni africane, flicorno, piano Fender e glockenspiel, ogni traccia è un incrocio di strumenti, voci e temi diversi, ma anche di più partiture a cominciare dalla title-track che racchiude tre canzoni in una. Spiccano poi “Helo rama per” con la partecipazione di due cori di bambini, il Coro delle voci bianche della Scuola Popolare di Musica di Testaccio e il Piccolo Coro di Piazza Vittorio. Struggente è l’inizio di “Laila” che si sviluppa in una suite corale e melodica prima di sfociare in “Balesh Tebsni”, che è il pezzo migliore del disco, una sorta di marcetta in bilico tra Renato Carosone, l’Europa dell’Est e il Mediterraneo più orientale.
Non tutto è allo stesso livello: alcuni brani sembrano essere di un gradino inferiore, anche se comunque l’Orchestra sopperisce spingendo sul ritmo e colorando gli arrangiamenti.
Chiude “Vagabondo Soy”, sottile dichiarazione di un’identità cittadina del mondo, cantata con la tipica leggerezza sudamericana. Nell’arco di nove pezzi le voci dominanti sono soprattutto quelle tunisine e senegalesi, ma ciò che conta è il risultato dell’insieme, sfaccettato e allo stesso tempo unitario, spinto da un fraterno desiderio di condivisione.
La musica dell’Orchestra di Piazza Vittorio comunica una forte bontà umana e strumentale, scaturita da una serie di storie che dovremmo presto vedere anche al cinema raccolte in un docu-musical di Agostino Ferrente.