La carriera di Mark Eitzel non è facile da riassumere o radunare attorno ad un unico centro. Stilisticamente complesso per il suo nomadismo tra i generi e le continue influenze musicali: dagli American Music Club ai dischi solisti, il passo è tanto continuo quanto lungo. Per la distanza fra la band e i lavori da solista penso non ci sia molto da dire che espliciti meglio dell’ascolto. Mentre per la continuità almeno una nota è importante farla e riguarda nello specifico il fatto di creare album policentrici che stanno insieme grazie ad un’atmosfera e non ad un genere.
Con questa lente penso vada visto l’ultimo lavoro di Eitzel, questo Klamath, che assorbe differenti influenze e le lascia staticamente decantare in un clima ovattato, che non si spinge verso la sperimentazione né verso il facile appeal melodico.
Si sente ascolto di Bon Iver come un certo gusto scarno della canzone che appartiene anche a Alexi Murdoch; decisamente ben rappresentato dalla copertina, Klamath è un disco va visto dall’alto, sono brani che si muovono in un strato loro fatto di bassa definizione, di rumori, voci lontane, arpeggi e tappeti di tastiere.
La strumentazione ridotta all’osso – quasi solo voce, chitarra e tastiere – contribuisce a rendere i brani essenziali e a mettere la voce in primo piano; nulla di elettrico e nulla che si aggiri verso un country-pop che fortunatamente Eitzel ha abbandonato.
È un disco particolarmente umorale, nel senso che non può avere un’accoglienza univoca negli ascoltatori, né può averla nello stesso ascoltatore in differenti momenti. I brani sembrano immobili al loro interno e nella successione, ma nascondono un punto di energia che ad un certo momento è in grado di farli fiorire. L’esempio potrebbe essere ´Why I’m bullshit´ che cattura l’ascolto lentamente con il giro in fingerpicking, né melodico-tematico (alla Drake e discepoli) né arioso e dolce (alla Sam Beam); gira attorno all’ascoltatore con il tappeto delle tastiere che copre e ovatta tutto quanto ma che lascia emergere molto bene nel finale il continuo ritornello carico di un pathos alla Rice degli esordi.
Da brani come questo, che raggiungono vette emotive notevoli, oppure come ´Remember´ o la coinvolgente e ritmata dalla batteria ´What do you got for me?´, o la bella e conclusiva ´Ronald Koal wa a rock star´, si può incappare in pezzi come ´I live in this place´ che è decisamente pesante e pochissimo espressivo dal punto di vista musicale.
L’unico consiglio è quello di ascoltare l’album più volte. Il parere è che sia un buon disco nell’insieme ma che non sia né significativo nella sua carriera né un disco da ricordare di questo 2009.