Marc Ribot`s Ceramic Dog Hope
2021 - Yellowbird
#Marc Ribot`s Ceramic Dog#Jazz Blues Black#Jazz #Ceramic Dog #Shahzad Ismaily #Ches Smith
Hope è un disco che sembra diviso in due parti. Fino a Bertha The Cool (smooth jazz, ma di quello buono...) la sensazione è quella di un coltissimo divertissement, un catalogo di generi a cui ispirarsi ma anche un po' da scalciare, con indomito stile punk e free. Chi conosce i Ceramic Dog, formati oltre che da Ribot dal bassista Shahzad Ismaily e dal batterista Ches Smith, sa che la commistione tra queste due paroline è la formula magica che li rende irresistibili. Da un lato l'irruenza e l'energia di uno stile che non lesina l'aggressione sonora sistematica dell'ascoltatore, dall'altro l'improvvisazione praticata in modo altrettanto radicale e l'infinita cultura musicale del professor Ribot. Allo spleen di B-Flat Ontology seguono il funky-reggae di Nickelodeon, il dance-beat strapazzato dalla chitarra di Wanna, lo spoken word di The Activist. Tutto viene scarnificato fino alla sua essenza più intima e al tempo stesso abbellito con tocchi di classe innata.
È l'urlaccio del sax di Darius Jones, ospite in They Met In The Middle, a fischiare l'inizio della side B nella nostra ipotetica partizione. La musica acquista maggior profondità e gli spazi necessari per sedimentarsi. Il genio del chitarrista di Newark sale in cattedra e ci regala un saggio della sua bravura, alternando spazi di pacata riflessione e momenti più convulsi, sostenuto dalle reiterate incursioni di Jones. La stupenda The Long Goodbye gioca sul contrasto tra introversione ed estroversione. La chitarra apre e chiude il pezzo in chiave riflessivo-minimalista, lavorando su poche note, mentre nel mezzo si apre in un lunga progressione cosmica di sapore hendrixiano, doppiata a un certo punto dal sax. In Maple Leaf Rage si fa notare lo scambio di ruoli tra Ches Smith e Ribot, con la pulsazione della chitarra che prima sostiene il libero flusso delle percussioni e poi sale in cattedra, trovando nella batteria un appoggio solido; il finale è inaspettatamente lisergico: vi congiurano, insieme al trio, i violoncelli di Rubin Khodeli e Gyda Valtysdottir. Un climax trascinante che si chiude tornando alla forma-canzone, con una personale versione della stupenda Wear Your Love Like Heaven di Donovan, qui totalmente trasformata in un magnetico spoken word su cui si appoggiano divagazioni free ed eleganti tocchi psichedelici. Un disco per chi crede che la chitarra abbia ancora tantissime cose da dire...