King Hannah Big Swimmer
2024 - City Slang
Pur senza l'intenzione di attivare la "modalità Fantozzi vs Guidobaldo Maria Riccardelli" sento comunque il bisogno di fare uno scomodo coming out: temo che il recente flirt tra indie rock e spoken word sia ormai giunto alla fase "abitudine anaffettiva".
D'altro canto, persino la più geniale strategia bellica finisce col perdere il proprio effetto sorpresa, nel momento esatto in cui la frequenza con la quale viene utilizzata inizia a farsi terribilmente prevedibile. Con Tell Me Your Mind And I’ll Tell You Mine (Ep d’esordio del 2020) e I’m Not Sorry, I Was Just Being Me (2022) i King Hannah, senza mostrare timori reverenziali, hanno già ampiamente dimostrato di poter attingere a una palette di colori dalla grana precocemente matura che, per brillare in modo personale, non ha bisogno di rincorrere i cliché o i trend contingenti nella (colpevole) convinzione di poter raggiungere il carisma di una Nico o di riuscire a rivaleggiare con la sofisticata visione pop di John Cale.
Vado quindi ad archiviare questa digressione introduttiva, chiarendo che le argomentazioni di cui sopra mi hanno persuaso ad abbassare di un punto il voto finale di Big Swimmer. Il lettore sarà quindi libero di ricalcolarlo, in completa autonomia, in base al proprio personalissimo livello di tolleranza nei confronti dell’oscillazione tra parti cantate e declamate che l’album sceglie di testare.
Mentre il Google Maps del duo di Liverpool continua a confondere (meravgliosamente) la campagna inglese con la provincia americana, Craig Whittle e Hannah Merrick riprendono il discorso dal punto esatto nel quale lo avevano interrotto due anni fa.
La loro ricerca, fatta di inquieti equilibri, sospesi tra folk spigoloso e aperture acide, scopre oggi un dosaggio che, per un curioso scherzo del destino, costringe il Lou Reed di Rock 'n' Roll Animal a infiltrarsi nella cover della sua Sweet Jane smontata, rallentata ed infine ricostruita dai Cowboy Junkies. Il featuring di Sharon Van Etten nella title track (una ballata per loner romantici che si sporca e si slabbra, mentre l’arrangiamento va a farsi due passi sul lato selvaggio) basta a testimoniare il progressivo avverarsi di tutte le buone intenzioni che i due hanno saputo accudire, grazie al sangue freddo di chi, pur conoscendo la strada, non ha fretta (o paura) di giungere a destinazione.
New York, Let’s Do Nothing è un’ode impressionista (alla non pianificazione ed all’appagamento effimero) di quelle che, a gamba tesa, entrano in una setlist con la chiara intenzione di non uscirne più. Con The Mattress si scivola comodamente in direzione Bristol, per incontrare una versione meno intellettuale e più di pancia dei Portishead di Glorybox. Somewhere Near El Paso suona come un Neil Young impeccabilmente apocrifo che, dopo aver sognato di essersi perso nel deserto del Mojave, si sveglia nel bel mezzo di una seduta di registrazione al Rancho De La Luna.
Dopo le prime note di Davy Says è chiaro che ci troviamo in macchina con J Mascis che dà un passaggio a Lou Reed. La chiusura, affidata a John Prine On The Radio, con sorprendente e vivido realismo, sembra immaginare la miglior Margo Timmins (voce dei Cowboy Junkies, tutto torna quindi) alle prese con il repertorio di Bobbie Gentry.
Big Swimmer è il classico secondo album che, pur non sprecando una goccia del prezioso capitale di credibilità già accantonato, non salta nel vuoto, ma, saggiamente, preferisce concentrarsi sull'assunzione di una serie di rischi calcolati. Il risultato non solo conferma la rilevanza di quanto prodotto sino a oggi, ma alza significativamente l'asticella delle aspettative, lasciandoci con la sensazione che la band sia cresciuta in statura, pur rimanendo comodamente seduta al proprio posto. Cosa che, fiduciosamente, eviteremo invece di fare noi di qui al loro prossimo lavoro.