John Surman Words Unspoken
2024 - Ecm
#John Surman#Jazz Blues Black#Jazz #Rob Luft #Rob Waring #Ducale #Thomas Stronen
Caposaldo del jazz europeo dalla fine degli anni Sessanta, il sassofonista e compositore inglese è stato un instancabile sperimentatore di contesti musicali molto differenti, portando sempre con sé la sua curiosità per i suoni del mondo, il potente lirismo del suo stile e la profondissima risonanza emotiva del suo timbro. In quest'ultima avventura è affiancato da tre giovani compagni (Stronen, Luft e Waring), che in alcune situazioni assecondano la prorompente personalità del leader, formando una sorta di cuscinetto sonoro da cui si librano le variegate voci dei fiati (sax soprano, sax baritono e clarinetto basso), mentre in altre la imbrigliano dentro una dimensione collettiva che si ispira alla tradizionale delicatezza dello stile Ecm.
Se nell'esordio del disco sembra prevalere il segno indelebile del suono di Surman, sostenuto dalle note atmosferiche e dai riverberi della chitarra, dalle cellule ritmiche del vibrafono e dalle punteggiature leggere della batteria, con il succedersi delle tracce si afferma la dimensione collettiva del quartetto. L'empito lirico del musicista inglese sembra spegnersi un po', per lasciare spazio all'insieme, anche se i sodali di Surman non si mostreranno mai, sul versante del solismo, come veri contraltari all'altezza del sassofonista, e forse questo è un po' il limite del disco.
Lo zenit emotivo che si tocca in Pebble Dance, con Surman al soprano nelle vesti di bardo e muezzin, lanciato in un assolo scorticante, tra reminiscenze folk anglosassoni ed echi orientali, rimarrà inarrivabile, così come lo struggente romanticismo al baritono della successiva Words Unspoken. Il tono si fa presto più narrativo e traccia dopo traccia scaturisce una voce d'insieme che ci restituisce un'atmosfera più leggera, a tratti quasi giocosa, che predilige il piccolo quadretto bucolico e la miniatura ben cesellata.
Il perfetto percorso di Onich Ceilidh, ispirata alla tradizione degli “incontri danzanti” in un villaggio scozzese dell'Inverness-shire, è il più significativo in questo senso: a ritmo di ballo folk si succedono i passaggi veloci e le sottolineature ritmiche del soprano, l'intervento finalmente importante del vibrafono, la chitarra che prima si limita all'accompagnamento e poi passa in primo piano e infine la chiusa del clarinetto basso che aggiunge un'ulteriore varietà timbrica. Quello che si perde in energia si guadagna in compiutezza nella costruzione dei pezzi, che è frutto di un interplay sempre più riuscito e ottenuto (verosimilmente) con poche parole. Lo dimostra la struttura, che torna tonale, di Flower in Aspic, introdotta dalla chitarra di Luft che richiama Bill Frisell. A seguire, il suono scuro dei tamburi di Stronen apre la peregrinazione del soprano in Precipice, lungo una traiettoria che da soavemente pastorale si fa via via più contrastata.
L'ultimo scorcio di Words Unspoken offre un'interazione ancora più densa fra i quattro musicisti. Gli strumenti si intrecciano e si integrano in profondità, mentre l'atmosfera generale si fa più scura, complessa e meno prevedibile. Il duetto molto libero tra Waring e Surman in Belay That fa da apripista per le note tirate, quasi bluesy, della chitarra; introdotto da un saltellante unisono, Bitter Aloe è un mosaico di interazioni affascinanti; in Hawksmoor il rapsodico dialogo tra clarinetto basso e batteria approda a un mood da colonna sonora, misterioso e intrigante, confermato dagli interventi del vibrafono e della chitarra. L'epilogo sembra scuotere una certa prevedibilità di fondo, in un disco che la straordinaria cavalcata in apertura di Pebble Dance faceva presagire più ricco di tellurici scossoni emotivi e che invece mostra il suo pregio migliore nella composta delicatezza.