James McMurtry The Horses And The Hounds
2021 - New West Records
Dal 20 agosto scorso il disco si trova quindi in rotazione continua e quello che segue è il resoconto dell’idea che me ne sono fatto.
Innanzitutto, il suono: tra la produzione di Ross Hogarth (che riporta alle loro radici rock’n’roll il basso di Cornbread e la batteria di Darren Hess, l’usuale sezione ritmica del nostro, sia live che in studio) e la chitarra di David Grissom, è facile il paragone con i primi due dischi di McMurtry, realizzati dallo stesso team. Ma The horses and the hound va oltre: suona quasi come un disco country rock mainstream di Nashville, ma senza sovrapproduzione. Rispetto a Complicated game la differenza è enorme, notte e giorno, mentre in confronto i precedenti Just us kids e Childish things suonano come dei demo casalinghi. Questa è la prima grande novità, ed è una novità estremamente benvenuta; non perché il suono folk, acustico e intimistico di Complicated game stancasse o sminuisse le doti del nostro: al contrario, esaltava quelle composizioni e le relative atmosfere, rendendolo un gran disco. Ma era chiaro che il lato più “rock” del texano fosse stato, fin troppo spesso, messo da parte.
E questo è un merito da ascrivere certamente alla chitarra del sommo David Grissom e alla produzione di Ross Hogarth, che gli ha lasciato carta bianca. Col risultato che a tratti, nei pezzi più rock, sembra di sentire i dischi solisti di Grissom, con il suono caratteristico della sua PRS DGT (“Paul Reed Smith modello David Grissom Trem: il modello che il noto liutaio del Maryland ha realizzato su sue specifiche) a dominare e guidare le canzoni. Tanto che lo stesso James McMurtry (a sua volta chitarrista di livello, con una personalità estremamente spiccata) dopo qualche giorno di registrazione (nello studio californiano di Jackson Browne, per inciso) ha appeso la chitarra al chiodo, lasciando campo libero al solo Grissom.
Tanto detto sulle novità sonore, andiamo al cuore del disco: le canzoni.
Potrebbe essere l’influenza del suono e degli arrangiamenti con cui sono vestite, ma a mio avviso le nuove composizioni sono davvero – almeno in parte – più commerciali, ma anche stavolta in senso estremamente positivo. Intendo dire che le musiche sono più limpide, più semplici, più immediate, più accessibili. È quest’ultima la parola chiave, perché laddove il suono di una Copper canteen, di una Carlisle’s haul o di una South Dakota (tutte sul penultimo Complicated game) rischiavano di tenere incollati allo stereo solo una nicchia, uno zoccolo duro di stomaci forti, abituati a certe rarefatte e raffinate sonorità acustiche e bucoliche, le canzoni di questo nuovo The horses and the hounds non soffrono di questo tipo di barriera verso un pubblico più ampio, casuale e meno concentrato. A ciò si aggiunga che molte delle strutture delle canzoni sono più semplici e orecchiabili, dalla grande melodia da cantare a squarciagola del primo singolo Canola fields, all’andamento scanzonato e i cori “gang” di If it don’t bleed, dal riff secco che apre la canzone che dà il titolo al disco (che tra strofa e ritornello si apre in un country rock da manuale) al sapore sixties di Blackberry winter che chiude il disco. Pochi accordi, meno arpeggi in accordature aperte, più assoli di chitarra ma tutti brevi il giusto.
A tratti sembra che McMurtry abbia rielaborato e semplificato alcuni dei suoi classici per renderli più orecchiabili, tanto alcuni brandelli di melodie sembrano sovrapporsi: la metrica e qualche accordo di Decent man ricordano Ruby and Carlos; l’andamento della strofa di Vaquero ricorda un misto tra The lights of Cheyenne e These things I’ve come to know; la strofa di Ft. Walton wake-up call è quasi sovrapponibile a How’m I gonna find you know?. Ma si tratta di impressioni passeggere, e d’altra parte ci può anche stare nel repertorio di artisti con identità musicali ben precise e ambiti stilistici non troppo ampi. E comunque le identità delle nuove canzoni emergono chiare e forti già al primo ascolto, senza essere offuscate dal ricordo dei grandi capolavori del passato.
Ma, diciamoci la verità, è per le storie che siamo qui. Al di là della godibilità della sola musica e della voce di McMurtry (e, ribadisco, questo disco è più “facile” degli altri da questo punto di vista), sono i suoi testi che lo pongono in un torneo a parte insieme ai grandi cantautori americani, tra gente del calibro di Guy Clark, Hank Williams, Townes Van Zandt, Jackson Browne, Bob Dylan, John Hiatt. Sotto questo aspetto The horses and the hounds non delude affatto, anzi! Al di là dell’aspetto più tecnico della scrittura e dell’esecuzione (metriche originali; ampiezza lessicale sconfinata rispetto a qualunque termine di paragone; timing del cantato originalissimo che, insieme alla pronuncia particolarmente marcata di alcune consonanti, rende unica l’esecuzione vocale), i testi hanno il solito merito di offrire angolazioni visuali tutt’altro che ordinarie su storie comuni di gente comune, impreziositi come sempre da perle di poesia e saggezza disseminate quasi casualmente qua e là tra i versi.
Il disco si apre con Canola Fields, in cui l’ineffabile emozione di una svolta inaspettata e insperata di una storia d’amore giovanile, che per una vita sembrava destinata a rimanere relegata a un angolo del cuore, viene descritta efficacemente in un solo straordinario verso: “cashing in on a thirty years crush, you can’t be young and do that” (“incassando su una cotta di trent’anni, non puoi farlo da giovane”). Segue If it don’t bleed, autobiografia di un personaggio sui generis con la sua laica apertura al prossimo (“serba per te le tue preghiere, io brindo alla tua salute”), in cui McMurtry semina uno dei suoi versi killer: “you stay in the game when you're too broke to fail, that's a fact” (“resti nel gioco quando sei troppo al verde per perdere, è un dato di fatto”). L’ironia (amara) su politica, giornalismo e opinione pubblica in Operation Never Mind (“abbiamo un’operazione in corso, ma non dobbiamo preoccuparcene, ci pensano i ragazzi di campagna a combattere, ora che tutto quello che i ragazzi di campagna possono fare è combattere; nessuno ci dirà che stiamo sbagliando, che finirà come un nuovo Vietnam: a nessuno importa, nessuno lo sa, perché nessuno lo vede in TV”); l’ennesima storia personale con svolta drammatica nel finale nella splendida ballata Jackie, con le chitarre di Grissom sempre in evidenza, anche quando devono limitarsi un arpeggio semplice; mentre in Decent Man il rimorso per l’omicidio di un caro amico in un momento di scarsa lucidità, ben nascosto sotto uno dei motivi più cantabili del disco, viene efficacemente espresso tramite il parallelo con un campo vuoto in cui non cresce più nulla, in cui la terra, ridotta a soli sassi non accetta più l’aratro, ed è buona solo per seppellire ossa. I problemi di coppia di un musicista sempre on the road sono raccontati con ironia in What’s The Matter? (“l’asciugatrice è rotta e i bambini piangono, piove e ci sono i panni stesi fuori, non so che dirti: come faccio a risolverlo a mille miglia di distanza?” ma la vita sulla strada non è più facile, tra cibo spazzatura, alcol, viaggi, pernottamenti di fortuna e pillole per la pressione…), che finalmente trova posto su un disco in un’ottima versione, dopo essere stata per anni un punto fermo delle scalette live.
Ma ci sarebbero da citare versi su versi per ciascuna delle dieci canzoni che compongono il disco… Anzi, ogni canzone meriterebbe una recensione tutta per sé, ma non è questo lo scopo di queste mie poche (?!) parole.
Nel complesso The horses and the hounds conferma che la penna di James McMurtry è affilata più che mai, che la sua voglia di rockeggiare aumenta con l’età e che noi tutti continuiamo ad avere nelle sue canzoni spunti inesauribili per riflettere, sorridere ed emozionarci.