Gazebo Penguins Quanto
2022 - Garrincha Dischi / To Lose La Track
Ma tra i sogni cestinati
Uno c'era in cui restiamo uniti”:
inizia così, con queste parole e con il singolo Nubifragio, il nuovo album di uno dei nomi “storici” della scena indie italiana degli anni Zero e oltre, i Gazebo Penguins, che sono tornati dopo cinque anni con un nuovo album, che è stato possibile acquistare in anticipo nelle date di Roma, Milano, Torino e Bologna, senza un pre-order online. La dimensione live è sempre stata infatti importante per il gruppo, che nel 2020 ha dovuto interrompere il tour per i 15 anni di carriera, ha ripreso a suonare nel 2021 e ora è pronto a tornare sul palco per le nuove date del 2023.
Il disco, pubblicato da Garrincha Dischi, in collaborazione con To Lose La Track, storica etichetta della band emiliana, propone brani che colpiscono nel segno per la loro urgenza e in cui si arriva quasi alla destrutturazione, come accade già appunto nel pezzo iniziale, caratterizzato da chitarre elettriche brucianti e dal sapore malinconico, puntellato da gorghi vertiginosi e fantasie noise di fiati, riff e rare note di piano; il brano rammenta i sogni in cui, con una persona che si sta allontanando, ci si è amati davvero, la necessità di un abbraccio che darebbe senso “al buco nero che di nome fa realtà” e infine la speranza che, se invece restasse, si riuscirebbe a ricomporre insieme non solo le fratture attuali, ma anche quelle future. D’altronde “rifare il letto viene meglio in due” e ci si può anche solo sedere un po’ distanti, o provare a tenere “chiusi gli occhi”, per provare “a non sparire” (Erwin).
A proposito dei buchi neri menzionati poc’anzi, l’album fa riferimento e utilizza concetti come il tempo, lo spazio, il vuoto e la gravità, tratti dalla fisica moderna e dalla filosofia della scienza, a partire dal titolo, spiegato così: “Se volessimo scendere nell'infinitamente piccolo non potremmo scendere all'infinito: ad un certo punto la materia si ferma. Ecco il quanto. Un frammento discreto, indivisibile, basilare, di una grandezza”.
Si continua con arrangiamenti potenti, basi ritmiche frenetiche e inarrestabili, muri di suono spessi e oscuri, materiati di chitarre elettriche dalle sfumature amare, che sembrano rappresentare un “muro grigio / sopra cui non scrivere niente” (Cosa fai domani), quella dimensione quotidiana opprimente e poco soddisfacente, da cui si cercherebbe una pausa, in un attimo, anzi “mezzo secondo” di respiro: è un momento in cui poter provare a piacersi, in cui darsi il tempo anche per assaporare in qualche modo il dolore e la malinconia, in cui “restare fermi, anche se fermi si muore” (il secondo singolo Cpr14).
Non mancano bassi che pulsano intimi e pensosi, aperture quasi spettrali, momenti strumentali sospesi e/o inquieti, come ad esempio quello dell’ultima traccia Uscire (che si chiude con versi senza illusioni: “partire non ci salverà / […] comunque vada, finirà / che mi vestirò bene / e ti guarderò uscire”). Gli strumenti sembrano allora parlare quasi più dei versi, per farci sentire vuoti nel petto, il vuoto del domani, sensazioni che fanno sentire spenti, stati d’animo a cui abituarsi o da cui svegliarsi “senza un domani, sempre” (Se non esiste il vuoto). Costanti le chitarre impetuose, corrosive o anche più riflessive, dense e gonfie di quel misto di disagio e sofferenza che spesso ci riservano la realtà e il suo peso, che ci fa desiderare “un’alba leggera” (Feyerabend), che allevi i troppi pensieri che assillano e tormentano la vita adulta. D’altra parte, crescere “è un traguardo / sempre un po’ più in là / sempre un po’ in ritardo” (Cosa fai domani).
Sette tracce autenticamente (indie-) rock, cupe, realistiche, agrodolci, in cui la potenza dei suoni è amplificatore e non surrogato dei significati, per raccontare un tempo sospeso, in cui “sogni e disgrazie stanno in bilico”. Un ottimo ritorno da non perdere e da ascoltare.