Ben Harper Bloodline Maintenance
2022 - Chrysalis Records
I “legami di sangue” del titolo sono il tema che fa da cornice alle undici canzoni: a rappresentarlo in copertina c’è una foto del musicista, bambino, in compagnia di Leonard, il padre scomparso da molti anni.
Ma c’è un altro legame che ha a che fare con l’urgenza di realizzare un album così, che è quello con l’amico Juan Nelson, bassista degli Innocent Criminals scomparso nel giugno 2021. Bloodline Maintenance, cioè la manutenzione, il mantenimento, il prendersi cura dei legami di sangue, ha a che fare col mantenerli vivi anche a dispetto dell’assenza, fin oltre la morte fisica.
E dunque non solo non c’è contraddizione, ma anzi la scelta di compiere l’impresa in solitaria dà un senso ulteriore a questo nuovo album di Ben Harper, che qui è solo con sé stesso perché è nella dimensione dell’assenza che si svolge il dialogo interiore con chi non c’è.
Per quanto abbia a cuore cause varie e si spenda per esse, l’immagine di cantante “impegnato” non rappresenta totalmente Ben Harper, così come è insufficiente pensarlo cantante “dei sentimenti”. Esistono individui che riescono a — o che non possono evitare di — sentire come proprie ferite le ferite del mondo. Le sentono bruciare sulla propria pelle, quasi. Quando va bene — sia a loro che a noi — quegli individui possono diventare degli artisti, per esempio. Ecco, Ben Harper è uno di quelli. I primi versi dell’album sono quelli della bellissima Below Sea Level, che l’artista canta a cappella sovraincidendo più volte la propria voce: “Ho paura che tutto quello che sta accadendo in questo mondo un giorno o l'altro mi metta in ginocchio”.
Così, in questa connessione persino straziante col prossimo e con il mondo circostante, sfuma il confine tra impegno politico e introspezione: Ben Harper può parlare di schiavitù, scrivere una canzone su Black Lives Matter, gridare un’accusa di straordinaria forza morale (“Sei un cristiano o un razzista? Non puoi essere tutt'e due”) e fare tutto questo assumendo una posizione intimamente dolente e partecipe.
La stessa presenza della musica nella sua vita è un’eredità che arriva dalla linea materna. Con la madre Ellen il musicista qualche anno fa realizzò persino un album di canzoni folk — c’è chi coltiva la propria bloodline maintenance andando a mangiare le lasagne della mamma la domenica e chi con la mamma ci fa un disco. Furono i nonni materni a prendersi cura di lui dopo la separazione dei genitori. Questo gli permise di passare gli anni della fanciullezza nel loro negozio di musica a Claremont in California. Quella distesa di strumenti popolari provenienti da tutto il mondo, in mezzo ai quali passava le sue giornate, doveva apparirgli un po’ come una rappresentazione plastica della sua geografia affettiva: una collezioni di suoni nei quali ritrovare la propria storia, con le sue molteplici radici ereditate dai genitori — afroamericana, pellerossa, ebraica, europea, russa. Forse fu per lui istintivo — e certamente in qualche modo gli fu necessario — cogliere quella grande disponibilità di mezzi per tradurre in suoni la complessità della sua identità così contaminata e ricca.
Ritrovarsi solo con sé stesso in uno studio di registrazione per Ben Harper dev'essere un po’ come rivivere quei giorni a Claremont.
In Bloodline Maintenance suona il basso, la batteria, le chitarre (soprattutto la slide), il piano, le percussioni. Co-produce con Sheldon Gomberg e per tutto il resto intervengono qua e là musicisti dal curriculum sfolgorante che lo affiancano anche solo per un brano. Cito su tutti Geoff Burke, un uomo che è una intera sezione fiati e che aggiunge qualcosa di determinante per l’identità complessiva del lavoro, sebbene appaia solo in un paio di canzoni.
L’album è un impasto elettrico di soul, funk e blues. È caldo e palpitante, è denso e materico. È essenziale, aggiungerei — in tutti i sensi: poco più di mezz’ora per undici canzoni. È una meditazione che non è mai consolatoria (“Chi ha detto che il tempo guarisce tutte le ferite non era uno schiavo, immagino”, da We Need To Talk About It). Anche la canzone che chiude il cerchio dell’album è una constatazione del fatto che quando il passato ferisce, resta come una presenza da cui non ci si separa (“E se ogni storia fosse solo una storia di dolore?”, dice la conclusiva Maybe I Can’t).
Poco spazio per la letizia, insomma, fra i solchi di Bloodline Maintenance. Eppure questa meditazione (“un sermone che fa bene all’anima”, dice la recensione uscita su No Depression, e ci sta) è sempre attraversata da una speranza, da una qualche fede, dalla consapevolezza di quanto la musica sia capace di liberare, di lenire le ferite, di collegare le persone. La musica e assieme ad essa, naturalmente, l’amore, quella forza più potente di qualunque altra (“ti amo più di quanto qualsiasi religione voglia salvarti l’anima”, canta Ben Harper in More Than Love).
Harper si è rimesso in viaggio con gli Innocent Criminals poco dopo la pubblicazione di Bloodline Maintenance. Ha portato anche in Italia le canzoni dell’album in uno spettacolo intimo e coinvolgente insieme, capace di creare una condivisione emotiva potente col pubblico — fondamentale in questo il legame maturo e sperimentato fra lui e il gruppo — ma senza astuzie da showman, soltanto con la potenza di queste canzoni e con l’autorevolezza sincera di chi sale su un palco per condividere la propria anima con chi è disposto ad ascoltarla.