Nanni Moretti Mia madre
2015 » RECENSIONE | Drammatico
Con Margherita Buy, John Turturro, Giulia Lazzarini, Nanni Moretti, Beatrice Mancini
30/04/2015 di Laura Bianchi
C'è, soprattutto, una storia minima, intima ed esemplare, scandalosamente privata ed individuale, ma universale, perché tocca corde di diverso genere, dal consuntivo di una vita, alla messa in discussione del senso della finzione, dai rapporti di genere e di generazione, fino all'analisi di una società in cui chi è stato educato alla dimensione politica stenta a trovare una propria collocazione, e a ritrovare le differenze di categorie sociali e culturali.
C'è una tematica, quella della fine vita, che si interseca con quella del fine della vita, intesa sia come percorso individuale, singolo e mediocre, anche se clamorosamente unico e singolare, sia come esistenza collettiva, su questa crosta di terra, ognuno col suo carico di ricordi, rimpianti, sogni infranti o riattaccati insieme dalla volontà di persistere, o di resistere. Moretti non sa, forse non vuole, dare risposte definitive; la sua cifra, artistica e stilistica, è sempre stato l'esercizio del dubbio, scomodo, inesausto, ironico o caustico, e nemmeno questo film fa eccezione; eppure, ogni fotogramma è percorso da una tensione costante, da una ricerca che spinge sempre in là, sempre un po' oltre, le prospettive e le aspettative dei protagonisti.
Così, la presenza - assenza della madre è evocata e ricostruita attraverso immagini mentali, che oscillano fra passato e futuro, fra esperienze vissute ed eventi temuti, e che proiettano i fantasmi, le speranze e le delusioni dei due fratelli, solo apparentemente algidi, egotici o maniacali, ma in realtà ricchi di una vibrante umanità, specchio della nostra. La vicenda raccontata da Moretti si dipana in un precario equilibrio fra ironia e commozione, disincanto e turbamento; accanto a sequenze paradossali (come quella, emblematica, dell'attore Turturro costretto a recitare fingendo di guidare, senza però vedere dove sta andando - e la regista Buy che alla fine esclama "Ma voi non avreste dovuto assecondarmi! Il regista è uno stronzo a cui voi fate fare quello che vuole!"), ne convivono altre di un rigore drammatico assoluto (ad esempio, il dialogo fra madre tracheotomizzata e figlia esausta in ospedale, in cui si invertono i ruoli fra giovane sana ed accudente e anziana malata e bisognosa di aiuto, oppure l'inesausta energia della nonna che insegna alla nipote a tradurre una versione di latino).
C'è una colonna sonora composta da brani non originali, ma scelti da Moretti per connettere intimamente fra loro le oscillazioni fra sogno e realtà che costituiscono la colonna portante della narrazione. Così, la parte strumentale è di Philip Glass o Arvo Part, e dà forma a timori o tensioni, mentre Famous Blue Raincoat di Leonard Cohen o Baby’s Coming Back to Me dell'ex Pulp Jarvis Coker sottolineano la trasformazione - fascinazione operata dalla vita, quando viene compresa un po' di più, quando il mistero si fa meno fitto, e la realtà sembra divenire un'opera d'arte.
C'è un regista, infine, che si immedesima in una figlia, in sua madre, in sua nipote, in tre generazioni di donne, legate insieme da un affetto impreciso e purissimo, e ci rende partecipi, con rispetto, con attenzione, quasi con pudore, dei propri turbamenti. Ascoltarli è esercizio difficile e doloroso, ma necessario, anche per noi.