Michael Moore è tornato. Senza fronzoli e battutacce contro l’amministrazione Bush, come accadde in “Fahrenheit 9/11”, ma con maggior lucidità e cognizione di causa. Perché sotto la lente della sua cinepresa, questa volta, ci è finita l’ingiusta sanità americana, che tanto malcontento, forse anche più della guerra in Iraq, sta provocando nel popolo a stelle e strisce.
Le testimonianze raccolte dal regista costellano ininterrottamente le due ore di documentario. Lo spettatore resta incollato alla poltrona, mentre sullo schermo si susseguono storie strazianti, dove la morte aleggia nella vita di quella povera gente, priva di assicurazione medica, incappata sfortunatamente in qualche malattia irrimediabile.
Come fare, in questi casi? A sentire le parole degli intervistati, che hanno visto spegnersi lentamente i loro cari senza poterli aiutare in nessun modo, la rassegnazione sembra essere quasi sempre l’unica via di fuga dal dolore. Un dolore, però, che, dopo la morte di un marito o di un figlio, sarà difficile da dimenticare.
E così la rabbia delle vittime – perché i parenti sono “vittime” al pari degli ammalati lasciati morire dalle ciniche compagnie di assicurazione – cresce e cresce e cresce. Per questo, quando Michael Moore ha chiesto al popolo di Internet di inviargli le proprie storie di malasanità, la sua casella di posta elettronica è stata invasa, in poche ore, da migliaia di email.
Anche questa è l’America, dunque, e la pellicola di Moore ce lo dimostra parlandoci non più del fantomatico sogno americano, ma di un sempre più frequente, a quanto pare, incubo americano. L’incubo di tanti statunitensi che pregano ogni giorno di non ammalarsi, perché altrimenti la loro vita potrebbe diventare un inferno.
Ma di chi è la colpa, si chiede allora il regista, volgendo lo sguardo al passato? La sentenza è senza appello, perché ci sono le prove: il colpevole fu il presidente Nixon, all’inizio degli anni settanta, dando avvio alla sciagurata privatizzazione della sanità americana, che da allora in poi sarebbe diventata ostaggio (letteralmente) delle avide compagnie di assicurazione, pronte a tutto pur di far quadrare i conti a fine anno.
Da qui nasce il paradosso (tutto made in Usa) dei tanti medici assunti come consulenti da queste compagnie, i cui incrementi di stipendio dipendono non da quanti pazienti riescono a curare, ma (paradossalmente) da quanti non vengono curati, facendo così risparmiare denaro alle assicurazioni sanitarie. Un premio al maggior profitto possibile, dunque, e non al miglior servizio per i propri clienti.
D’altra parte, stiamo pur sempre parlando di aziende private. E all’assistenza medica universale (e gratuita), come la conosciamo noi europei, non ci pensano gli americani? Per ora possono solo sognarsela, magari facendo un salto in Canada, in Francia, in Inghilterra o a Cuba (qui un medicinale costa ben 5 centesimi a fronte dei 120 dollari degli Stati Uniti), dove la sanità pubblica e l’assistenza gratuita sono un “must” irrinunciabile, al pari dei principi costituzionali made in Usa.
E allora, si chiede Michael Moore, perché noi americani non possiamo imitare questi paesi e la loro assistenza sanitaria pubblica? Di cosa abbiamo paura? Ma la domanda è retorica, e il regista lo sa. Di perdere profitti: di questo hanno paura gli amministratori a stelle e strisce.