Philip Larkin Poesia della verità
13/10/2022 Articolo di Vincenzo Petronelli
Poetica
Philip Larkin è senza dubbio una delle voci più autorevoli della poesia britannica della seconda parte del secolo scorso e tuttavia rimane, a quarant’anni dalla sua scomparsa, un poeta ancora misconosciuto in Italia.
La ragione di tale distonia è da ricercare nella natura ontologica della sua ricerca poetica: una poesia posta al servizio del tentativo di narrare la verità e priva di qualsivoglia visione consolatoria ed idealistica, tendenze invece prevalenti a lungo nella nostra cultura poetica ufficiale, rispetto alla quale, l’opera di Larkin, può risultare per certi versi addirittura cruda per il realismo che accompagna coerentemente tutta la sua opera.
Proprio da questa sua particolare impronta, discende un’altra caratteristica che connota il rapporto fra la poetica di Larkin ed il mondo della critica, vale a dire la sua difficoltà di collocazione nell’ambito delle varie correnti presenti nel panorama della poesia britannica del secondo dopoguerra: generalmente è stato accostato all’ambiente del Movement che pure annovera altri autori importanti della poesia inglese dell’epoca (basti citare Kingsley Amis, Donald Davie, Robert Conquest), con il quale peraltro Larkin condivide senz’altro lo sforzo per una certa rivitalizzazione della produzione poetica inglese, così come la visione di un’impostazione del verso rigorosa e l’intento di ricercare una chiarezza espressiva; ma mentre questi ed altri aspetti programmatici all’interno delle finalità del movimento, assurgono quasi ad un valore “religioso” per gli altri componenti, nel caso di Larkin la sua scrittura muove principalmente dall’urgenza del “dire”.
Del resto, la sua personalità si è sempre distinta per una certa tendenza schiva, quindi non facilmente incline ai coinvolgimenti ed agli entusiasmi collettivi; lo stesso realismo che intride la sua versificazione e che lo induce a soffermarsi spesso su ambientazioni di microcosmi legati ad esempio a periferie derelitte, è il risultato di un certo spaesamento, disorientamento, che la sua attitudine intellettuale gli fa avvertire nei confronti della maggior parte della società del suo tempo e non frutto di qualsivoglia istanza programmatica socio-ideologico-politica, antitetica con la visione del suo impegno intellettuale. Analogamente, la scelta di un tono realistico, prosastico addirittura in certi passaggi, è a sua volta collegato alla necessità che il poeta avverte, di voler mantenere un tono neutro, perseguendo scientemente un modello di proposta di “spegnimento delle passioni” che identifica il suo stato d’animo nel rapportarsi alla scrittura.
Silvio Raffo, grande poeta, critico e traduttore italiano, ha definito la poetica di Larkin “elementare”, nel senso di distante da qualsiasi tendenza metafisica, al tempo stesso non limitandosi ad un’osservazione “cronachistica” della realtà – rischio in cui la poesia narrativa o prosastica, che dir si voglia, rischia di incappare - ed anzi è spesso incappata nel corso del ‘900, nell’illusione di poter ritrarre in poesia il registro linguistico della quotidianità - grazie al suo sguardo capace di un’analisi penetrante, in grado di oltrepassare i dati della mera apparenza (non a caso Larkin sviluppa una grande passione anche per la fotografia); del resto la sua inclinazione alla solitudine e la sua natura appartata, ben si coniugano con la sua capacità di osservare instancabilmente la natura ed il mondo che lo circonda, scrutandolo e sezionandolo ed ogni manifestazione delle sfaccettature della vita, fosse anche la più elementare (ritorna la definizione proposta da Raffo) diventa per lui occasione di approfondimento poetico.
Nato nel 1922 (il 9 agosto avrebbe dunque compiuto 100 anni) a Coventry, Larkin fin dall’infanzia matura un’inclinazione all’alienazione dalla vita collettiva, educato in casa fino all’età di 8 anni da sua madre e sua sorella e comincia ad interessarsi al mondo artistico inizialmente tramite la musica e la sua passione per il jazz, che pratica suonando batteria e sax.
Tramite il suo tutor universitario, Norman Iles, conosce Kingsley Amis, destinato a diventare uno tra gli esponenti eminenti del suddetto Movement, avviando un proficuo confronto intellettuale ed artistico destinato a proseguire per tutta la vita, partendo proprio dal comune interesse per il jazz. Amis apprezza in particolare l’ironia sferzante di Larkin e lo incoraggia a proseguire sulla strada della composizione poetica e dei progetti letterari in generale.
Fin dall’età adolescenziale, Larkin comincia a produrre incessantemente tanto poesia che opere di narrativa, assumendo in particolare come riferimento per la poesia Eliot ed Auden ed ancora studente universitario, comincia a pubblicare sue poesie nella rivista The Listener. Idea anche un eteronimo Brunette Coleman, sotto la cui identità compone due novelle, Trouble at Willow Gables e Michaelmas Term at St Brides, raggiungendo il culmine di questa prima fase con la pubblicazione del romanzo Jill (1946) - prova che gli permette di acquisire una certa notorietà - preceduto tre mesi prima dalla sua prima raccolta poetica, The north ship.
I successivi cinque anni trascorsi a Belfast si rivelano determinanti per la sua maturazione; in particolare è proprio in questo periodo che vede la luce una delle sue raccolte fondamentali, The Less Deceived del 1955, punto d’arrivo di una febbrile attività di scrittura condotta fino a quel momento. Nonostante la silloge venga pubblicata nel mese di novembre, a dicembre è già inclusa nella lista dei libri dell’anno, secondo la rivista Times.
Poeta ormai affermato e voce autorevole, Larkin continua a comporre febbrilmente e negli anni successivi compaiono alcuni dei suoi componimenti fondamentali, tra i quali An Arundel Tomb, The Whitsun Weddings e Here. The Whitsun Wedding, diventa anche il titolo della successiva raccolta, edita nel 1964, dando avvio al periodo più fertile della sua produzione, periodo che culmina negli anni ’70 con l’apparizione di di poesie come The Building e The Old Fools, incluse poi nella sua ultima raccolta High Windows, apparsa nel 1974 e che comprende anche altre sue prove notevoli, come This Be The Verse, The Explosion, ed il poema breve Annus Mirabilis.
Successivamente, Larkin continua a comporre solo singole poesie, come Aubade pubblicata il 23 dicembre nel Times Literay Supplement ed infine Love Again, edita postuma, essendo Larkin nel frattempo deceduto, il 2 dicembre 1985.
Larkin svolge per tutta la vita la professione di bibliotecario, che si intreccia strettamente con la scrittura, non solo per un’evidente contiguità e funzionalità di interessi e per la possibilità di disporre con facilità di materiale poetico funzionale all’ampliamento dei suoi orizzonti poetici, ma anche per l’acquisizione di una sorta di forma mentis che ritroviamo nella sua prassi di scrittura, fatta della stessa tendenza maniacale alla precisione che lo porta, nella redazione poetica, ad annotare meticolosamente qualsiasi osservazione esistenziale utile per i suoi temi ispirativi, avendo nella memoria un repertorio insostituibile di materiale poetico; ma a quello che si potrebbe immaginare come un atteggiamento di puro sezionamento scientifico freddo della realtà, si abbina un raffinato spirito umanistico, che si manifesta in quel linguaggio colloquiale, quasi piano, che lo contraddistingue, rifuggendo totalmente da tentazioni intellettualistiche.
Così, se i riferimenti del Larkin giovane sono rintracciabili in poeti come Auden, Yeats ed Eliot, il Larkin più maturo (da The less deceived in avanti) è influenzato più da una figura come quella di Thomas Hardy, uno tra i poeti più originali dell’800 inglese, per la sua tendenza alla sperimentazione di nuovi modelli linguistici e stilistici incluso, da un certo punto in poi della sua parabola creativa, il modello colloquiale, discorsivo, che come detto costituisce la cifra stilistica permanente dell’opera larkiniana; come usava sostenere Hardy, anche Larkin osserva “persone comuni fare cose comuni”.
Larkin si dimostra disinteressato ad un’idea di poesia che poggi su allegorie letterarie di derivazione classica, non solo per la volontà di ritrarre in poesia la vita ordinaria, ma anche per la naturale esaltazione dei sentimenti che l’elegia implica, alla quale Larkin oppone un modello basato sulla “semplicità e lo scetticismo".
In questo senso, l’influenza di Yeats continua a persistere, appunto in quella semplicità del linguaggio, in cui la metafora di stampo classico, viene sostituita da immagini legate alla natura, lontane da qualsivoglia artificio stilistico. Peraltro, la metafora, l’allegoria, l’allusione, rivestono un ruolo fondamentale nell’economia della costruzione poetica in stile narrativo, prosastico, proprio per evitare la riduzione alla quotidianità della lingua poetica, che per quanto possa (e Larkin, come abbiamo già visto anche in Muldoon, lo fa egregiamente) ritrarre scene della vita di ogni giorno, deve sempre cercare di mantenere una prospettiva “altra” per legittimare il suo essere poesia.
Larkin sintetizza efficacemente questa sua propensione versificatoria con un’affermazione perentoria: “Odio i versi che vogliono spiegare”, perché la sua attitudine è ritrarre la vita e la vita non si può spiegare, pena la trasformazione dell’arte in pura chimica. Non a caso Larkin parla della vita in un suo componimento come di un: “groviglio affaccendato/incurante di un mondo preso a nolo”.
La sua natura di osservatore, di naturalista e antropologo teso ad indagare la vita umana in ogni sua manifestazione, lo conduce a scrutare con occhio indagatore ogni situazione in cui si imbatta, con una netta preferenza per dei non luoghi ante litteram (seconda la celebre formula che sarà poi coniata dall’antropologo Marc Augè) che si tratti di fiere popolari, di stazioni di supermercati, di matrimoni o funerali, parchi, ecc. per poi tornare a soffermarsi su sé stesso, ma arricchito nel suo angolo visuale, dalla scia di quegli incontri e quelle sensazioni, da ricostruire nel suo laboratorio di anatomopatologo della vita, sui suoi amati fogli in cui prende forma la sua personale commedia umana, fatta di un cosmo che nella maggior parte dei casi gli sembra privo di senno e tuttavia ancora trepidante di sogni in grado di pulsare dietro la cortina della frustrazione, ciò che lo porta a dire che “la maggior parte delle cose sono insignificanti”, a fronte degli sforzi dei più di riuscire a trovare un senso alle proprie esperienze.
In tutto ciò non manca, come dicevamo, il richiamo alla memoria, serbatoio fondamentale di contenuti di ritratti di vita, per quanto il rapporto di Larkin con la memoria si guardi bene da indulgenze sentimentalistiche, come del resto nella sua natura. Le immagini che affiorano dai cassetti dei ricordi sono dei fermi immagine estratti dai meandri del tempo, isolate dal loro contesto globale, proprio per poterle osservare meglio, astraendosi da gingilli nostalgici o patetici, mantenendo sempre il primato della lucida osservazione, in cui i confini temporali sfumano, permettendo a Larkin di continuare a mantenere la prospettiva presente nella sua narrazione, dove tutto viene sempre e comunque riportato al “qui ed ora”, donde la sua nettissima prevalenza dell’uso del presente.
L’atteggiamento sempre compassato, misurato di Larkin, non significa assolutamente che egli rimanga impassibile di fronte a ciò che osservi: al contrario, Larkin è costantemente accompagnato da un senso di caducità della vita e dei valori, che gli fa cogliere immediatamente i segni indicanti il rischio di degenerazione e rovina; i delitti, le prevaricazioni nei confronti dei deboli, le violenze di ogni tipo, compaiono nelle poesie di Larkin, come segnali tangibili di disagio.
Come fa notare Silvio Raffo, la poesia di Larkin è refrattaria alla luce ed alle descrizioni cromatiche, che quando compaiono sono sempre sfumate, quasi avare, presenti solo allo scopo di completare la cornice ambientale e non a caso, quasi creando un ossimoro, i tratteggi di luce meglio abbozzati, sono quelli della luce invernale, più discreta nella sua obliquità. Anche il sole, nelle rappresentazioni larkiane, finisce per perdere i suoi connotati usuali di vitalità ed energia.
Questa concezione della luce e della cromaticità crea un inevitabile parallelo con Montale, per questa trasposizione della luce in una dimensione ribaltata rispetto alla declinazione classica di positività legata al significato della rivelazione; né questo è l’unico tratto che accomuni i due poeti, come si nota ad esempio nelle opere più discorsive di Larkin, con la sua tendenza satirica, sarcastica, che ritroviamo anche nel tardo Montale. Ciò che invece differenza la scrittura di Larkin da quella, ad esempio dello stesso Montale, è l’idea, sottostante la sua operazione poetica, della poesia come strumento di comunicazione chiaro, efficace, sincero, il che lo conduce verso la scelta del suo registro linguistico di carattere colloquiale. Si vengono ad intersecare così due ripiani nell’opera di Larkin: quello della verità e della forma, poiché l’idea di una poesia che sia attinente al vero, in questo caso da intendersi come realismo, verosimiglianza, passa per Larkin necessariamente attraverso un’adesione stilistica ad una lingua che sia non solo chiara ed immediatamente comprensibile (ovviamente nel rispetto della necessità di mantenere un velo poetico), ma che soprattutto restituisca fedelmente la realtà interrogata e sviscerata dal poeta. La visione dell’impegno poetico di Larkin è totalmente sganciata da tendenze sperimentaliste o intellettualistiche, appunto perché risulterebbero in contrasto con questo suo credo: la sua unica preoccupazione è mantenere la lettura della sua poesia accessibile, calandosi nei panni del lettore ed immaginando evidentemente la possibilità di una fruizione popolare del messaggio poetico.
È questa sommatoria di componenti a fare di Larkin uno dei maggiori esponenti della poesia britannica novecentesca e dunque una voce interessante da approfondire anche per la platea italiana.
POESIE
NO ROAD
Since we agreed to let the road between us
Fall to disuse,
And bricked our gates up, planted trees to screen us,
And turned all time's eroding agents loose,
Silence, and space, and strangers - our neglect
Has not had much effect.
Leaves drift unswept, perhaps; grass creeps unmown;
No other change.
So clear it stands, so little overgrown,
Walking that way tonight would not seem strange,
And still would be allowed. A little longer,
And time would be the stronger,
Drafting a world where no such road will run
From you to me;
To watch that world come up like a cold sun,
Rewarding others, is my liberty.
Not to prevent it is my will's fulfillment.
Willing it, my ailment.
NESSUNA STRADA
Dacché abbiamo deciso di lasciare
la strada fra noi cada in disuso,
e murato i cancelli, piantato alberi a schermo,
dato piena libertà a tutti gli agenti corrosivi del tempo -
silenzio, spazio, estranei - la nostra
incuria non ha avuto grandi effetti.
Forse, mucchi di foglie non spazzate;
ciuffi d'erba striscianti. Il resto, tutto uguale.
Ancora così sgombro è quel sentiero, così spoglio.
che non parrebbe strano percorrerlo stanotte.
sarebbe ancora lecito.
Il tempo avrà la meglio, di qui a poco,
tracciando un mondo senza più una strada
simile a questa da te a me; osservare
quel mondo che si leva, sole freddo,
che giova ad altri, è la mia libertà.
Non osteggiarlo è proprio il compimento
della mia volontà. Volendo, il mio tormento.
(Da, The less deceived, 1955)
GOING
There is an evening coming in
Across the fields, one never seen before,
That lights no lamps.
Silken it seems at a distance, yet
When it is drawn up over the knees and breast
It brings no comfort.
Where has the tree gone, that locked
Earth to the sky? What is under my hands,
That I cannot feel?
What loads my hands down?
PARTENZA
C'è una sera che scende,
a nessun’altra uguale,
sui campi avanza e lumi non accende.
Di seta sembra da lontano, pure
quando t’avvolge le ginocchia e il petto,
non è per confortare.
L'albero che saldava terra e cielo
dov’è fuggito? Qui, sotto le dita
cosa c’è che non posso sentire?
Qual è il peso che grava sulle mie le mani?
(Da, The less deceived, 1955)
THE BEST SOCIETY
When I was a child, I thought,
Casually, that solitude
Never needed to be sought.
Something everybody had,
Like nakedness, it lay at hand,
Not specially right or specially wrong,
A plentiful and obvious thing
Not at all hard to understand.
Then, after twenty, it became
At once more difficult to get
And more desired - though all the same
More undesirable; for what
You are alone has, to achieve
The rank of fact, to be expressed
In terms of others, or it's just
A compensating make-believe.
Much better stay in company!
To love you must have someone else,
Giving requires a legatee,
Good neighbours need whole parishfuls
Of folk to do it on - in short,
Our virtues are all social; if,
Deprived of solitude, you chafe,
It's clear you're not the virtuous sort.
Viciously, then, I lock my door.
The gas-fire breathes. The wind outside
Ushers in evening rain. Once more
Uncontradicting solitude
Supports me on its giant palm;
And like a sea-anemone
Or simple snail, there cautiously
Unfolds, emerges, what I am.
LA COMPAGNIA MIGLIORE
Quando ero bambino pensavo,
distrattamente, che la solitudine
non dovesse mai essere cercata.
Qualcosa che ogni uomo possedeva,
come la nudità - a portata di man
un possesso né giusto né sbagliato,
qualcosa di abbondante e scontato,
che non era difficile capire.
Dopo i vent’anni, divenne d’un tratto
Una conquista ben più impegnativa
desiderata e più indesiderabile -
perché anche soltanto ciò che sei
per diventare verità di fatto
da altri esige una definizione
oppure è solo inganno,
mera compensazione.
Oh, molto meglio stare in compagnia!
Ma per amare devi avere un altro,
il donare richiede un legatario,
ed un rapporto di buon vicinato
impone intere parrocchie
di gente per durare – così, in definitiva,
ogni nostra virtù è sociale: se,
in compagnia forzata mordi il freno,
è chiaro che non sei un tipo virtuoso.
Perversamente, sì, chiudo la porta.
La stufa a gas sospira. Ed il vento fa entrare
la pioggia della sera. Un’altra volta,
una volta di più è l’incontestabile
solitudine, è lei che mi sostiene
nel suo palmo gigante; e come attinia
o semplice lumaca, pian piano
lì si schiude ed emerge ciò ch’io sono.
(Da, The less deceived, 1955)
PLACE, LOVED ONES
No, I have never found
The place where I could say
This is my proper ground,
Here I shall stay;
Nor met that special one
Who has an instant claim
On everything I own
Down to my name;
To find such seems to prove
You want no choice in where
To build, or whom to love;
You ask them to bear
You off irrevocably,
So that it's not your fault
Should the town turn dreary,
The girl a dolt.
Yet, having missed them, you're
Bound, none the less, to act
As if what you settled for
Mashed you, in fact;
And wiser to keep away
From thinking you still might trace
Uncalled-for to this day
Your person, your place.
LUOGHI AMATI
No, non ho mai trovato
un posto di cui dire
“Questa è la mia terra,
Qui voglio rimanere” -
né quella persona speciale
che all’istante reclama
tutto ciò che possiedo
e addirittura il mio nome;
simili circostanze proverebbero
che non c’è necessità di scegliere
dove farsi la casa, o chi amare;
a quei luoghi chiediamo solamente
di travolgerci irrevocabilmente,
dimodoché non sia poi colpa nostra
se la città diventa inabitabile,
o la ragazza un’idiota.
Eppure, non avendoli trovati,
si è costretti ad agire, nondimeno,
come se ciò cui ci siamo adattati
ci avesse di fatto, legati;
ed è più salutare trattenerci
dal pensiero che si potrebbe ancora
scoprire fino ad oggi inessenziali
i nostri posti, la nostra persona.
(Da, The less deceived, 1955)
TO MY WIFE
Choice of you shuts up that peacock-fan
The future was, in which temptingly spread
All that elaborative nature can.
Matchless potential! but unlimited
Only so long as I elected nothing;
Simply to choose stopped all ways up but one,
And sent the tease-birds from the bushes flapping.
No future now. I and you now, alone.
So for your face I have exchanged all faces,
For your few properties bargained the brisk
Baggage, the mask-and-magic-man's regalia.
Now you become my boredom and my failure,
Another way of suffering, a risk,
A heavier-than-air hypostasis.
A MIA MOGLIE
Averti scelta chiude quel ventaglio
di pavone, il futuro variegato
di tante prospettive di natura.
Un potenziale certo incomparabile,
ma illimitato solo a patto che
non si scegliesse; il solo atto di scegliere,
bloccò tutti i sentieri tranne uno,
e cacciò via dai cespugli gli uccelli
dispettosi nel loro incauto volo.
Nessun futuro adess. Io e te, da soli.
Così ogni volto per il tuo ho ceduto,
Per la tua magra dote ho dato in cambio
Il mio smagliante corredo, le insegne
di maschere e magie concesse all’uomo.
Ora sei tu il mio tedio, il mio disastro,
un altro modo di soffrire, un rischio,
ipostasi pesante più dell'aria.
(Da, XX poems, 1951 e Collected poems, 1988)
ARRIVALS, DEPARTURES
This town has docks where channel boats come sidling;
Tame water lanes, tall sheds, the traveller sees
(His bag of samples knocking at his knees),
And hears, still under slackened engines gliding,
His advent blurted to the morning shore.
And we, barely recalled from sleep there, sense
Arrivals lowing in a doleful distance –
Horny dilemmas at the gate once more.
Come and choose wrong, they cry, come and choose wrong;
And so we rise. At night again they sound,
Calling the traveller now, the outward bound:
O not for long, they cry, I not for long –
And we are nudged from comfort, never knowing
How safely we may disregard their blowing,
Or if, this night, happiness too is going.
ARRIVI, PARTENZE
Questa città ha banchine dove i battelli accostano;
docili strade d'acqua, capannoni alti, vede il viaggiatore
(La valigia con il campionario gli urta le ginocchia),
e sente, ancora fra ingranaggi che scorrono a rilento,
blaterare il suo arrivo sbottò sulla riva del mattino.
E noi, tra veglia e sonno, sentiamo quegli arrivi
muggire in dolorosa lontananza -
dilemmi incancreniti sono ancora alla porta.
“Vieni a scegliere male – gridano – vieni a scegliere male”;
così ci alziamo. Di notte di nuovo echeggiano,
Chiamando il passeggero, diretto ad altri lidi:
“Non ancora per molto, gridano, non per molto”
Così dal nostro torpore ci scuotono,
mai certi se sia bene quel gemito ignorare,
o stia partendo, stanotte, anche la felicità.
(Da The less deceived, 1955)
TO PUT ONE BRICK UPON ANOTHER
To put one brick upon another,
Add a third and then a forth,
Leaves no time to wonder whether
What you do has any worth.
But to sit with bricks around you
While the winds of heaven bawl
Weighing what you should or can do
Leaves no doubt of it at all.
POSARE UN MATTONE SU UN ALTRO
Posare un mattone su un altro,
Aggiungerne un terzo ed un quarto,
Non lascia tempo di chiedersi
Se ha un senso quello che fai..
Ma star seduto con mattoni intorno
coi venti che imperversano dal cielo
meditando su quello che dovresti
fare o su quel che puoi, toglie ogni dubbio.
(Da, XX Poems, 1951 e Collected poems, 1988)
FAR OUT
Beyond the dark cartoons
Are darker space where
Small cloudy nests of stars
Seem to float on air.
These have no proper names:
Men out alone at night
Never look up at them
For guidance or delight,
For such evasive dust
Can make so little clear:
Much less is known than not,
More far than near.
LONTANO DI QUI
Al di là delle insegne luminose
ci sono spazi più oscuri: lassù
piccoli nidi brumosi di stelle
sembra ondeggino in aria.
Non hanno specifici nomi:
Nessun uomo che vaghi nella notte
volge a loro il suo sguardo
per orientarsi o per puro piacere;
una polvere tanto evanescente
può dar ben poca luce:
È molto meno il noto che l’ignoto,
È molto più il lontano che il vicino.
(Da, Collected poems, 1988)
LONG LYON DAYS
Long lion days
Start with white haze.
By midday you meet
A hammer of heat —
Whatever was sown
Now fully grown,
Whatever conceived
Now fully leaved,
Abounding, ablaze —
O long lion days!
LUNGHI GIORNI DEL LEONE
Lunghi giorni del leone
si schiudono in bianca foschia,
a mezzogiorno ti scontri
con un maglio infuocato -
ogni seme piantato
ora è in pieno rigoglio,
ogni germoglio
in piena fioritura,
messe abbagliante -
o lunghi giorni del leone!
(Da, Collecte Poems, 1988)
DAYS
What are days for?
Days are where we live.
They come, they wake us
Time and time over.
They are to be happy in:
Where can we live but days?
Ah, solving that question
Brings the priest and the doctor
In their long coats
Running over the fields.
GIORNI
A cosa servono i giorni?
I giorni sono dove viviamo.
Arrivano, e ci svegliano
un’alba dopo l’altra, senza sosta.
Festeggiarli conviene:
Dove potremmo vivere se non nei nostri giorni?
Ah, ecco che risolvono la questione
il prete ed il dottore,
li vedi? Quei lunghi pastrani
che corrono su per i campi.
(Da, Collected Poems, 1988)
Elenco delle opere
- The North Ship. The Fortune Press, Cambridge, 1945.
- XX Poems, Autoprodotto, 1951
- The Less Deceived, The Marvell Press, London, 1955
- The Whitsun Weddings, Faber and Faber, London, 1964
- High Windows, Faber and Faber, London, 1974
- Collected Poems, Faber & Faber, London, 1988 (a cura di Anthony Thwaite)
- Collected Poems, Faber & Faber, London, 2003 (a cura di Anthony Thwaite)
- The complete poems, Faber & Faber, London, 2012 (a cura di Archie Burnett)
Traduzioni italiane
- The Whitsun Weddings - Le nozze di Pentecoste e altre poesie, trad. Renato Oliva e Camillo Pennati, Einaudi (Collezione di poesia n. 64), Torino, 1969
- High Windows - Alte finestre (High Windows, a cura di Luisa Pontrandolfo, ETS (Poiesis e critica mitica n. 14), Pisa, 1990
- High Windows – Alte Finestre, a cura di Enrico Testa, Einaudi (Collezione di poesia n. 306), Torino, 2002
- Fading. Poesie scelte, 1950-1980, a cura di Marco Fazzini, Stamperia dell'Arancio, Grottamare, 1994
- Quattro poesie, trad. di Francesco Petrocchi, in Il gallo Silvestre, 17-18, 2004, pp. 54-60
Consiglio di lettura dell’autore
Non essendo disponibile, come riportato nella bibliografia, un’unica selezione in italiano della produzione poetica di Larkin, il miglior percorso di lettura possibile è legato alle due sillogi tradotte e pubblicate da Einaudi, data l’irreperibilità degli altri titoli. Per quanto concerne le pubblicazioni in inglese, per chi avesse la possibilità di leggere l’opera di Larkin in lingua originale, può essere sicuramente interessante procurarsi The Whitesun Weddings e High Windows (The Less Deceived è ormai di difficile reperibilità: tra l’altro questa raccolta ha la particolarità di aver lanciato la piccola casa editrice Marvell Press); tuttavia, data la complessità, l’eclettismo e la prolificità della produzione larkiniana, di cui solo una percentuale limitata è apparsa nelle singole pubblicazioni, la lettura più esaustiva rimane l’ultima antologia, Collected poems, apparsa nel 2012 per i tipi della prestigiosa casa editrice londinese Faber & Faber.
Preciso che per la traduzione dei testi scelti per la piccola antologia presente in quest’articolo, ho fatto riferimento alla traduzione di Silvio Raffo, contenuta nell’articolo apparso nella rivista Poesia edita dall’editore Crocetti, nel Giugno 2014.