Henrik Nordbrandt

Henrik Nordbrandt Il nostro amore è come Bisanzio


10/01/2022 Articolo di Vincenzo Petronelli

Poetica

Poeta e saggista danese, Nordbrandt nasce a Frediksberg il 21 marzo del 1945; è generalmente riconosciuto come uno dei massimi poeti danesi del XX secolo. La sua prima raccolta - intitolata semplicemente Digte (Poesie) - risale al 1966 ed è stata seguita da una lunga serie di pubblicazioni, fino all’ultima, 3 ½ D apparsa nel 2013. È stato inoltre autore di thrillers, di opere di narrativa, di vari libri per l’infanzia; una particolarità curiosa, che testimonia la sua versatilità e la sua originalità, è costituita da una sua pubblicazione di ricette di cucina tedesca contenente solo piatti a base di crauti e verdure. È stato anche traduttore, in particolare di poeti francesi. Nel 2000 gli è stato conferito il prestigioso premio per la letteratura assegnato dal Nordisk råds litteraturpris, il Consiglio Nordico per la letteratura.

Personaggio insolito – come molti scrittori danesi a causa della loro collocazione ibrida tra l’Europa “continentale” ed il mondo scandinavo più profondo - Norbrandt sfugge ad un incasellamento preciso, come del resto accade anche ad altri poeti della contemporaneità. Tuttavia, fin dalla sua apparizione con “Digte”, è stato ribattezzato come “il classico Nordbrandt” per il suo incedere classico, tanto nei temi quanto nello stile, musicale e policromo, di stampo romantico. Proprio nella migliore tradizione romantica, gli oggetti prevalenti della sua versificazione sono l’amore, la morte, la natura, peraltro con un’attenzione per la tematica amorosa (anomala solitamente per i canoni poetici scandinavi e sicuramente tributaria alla sua lunga permanenza e frequentazione mediterranea) affrontata con accenti malinconici e sensuali, a cui però si abbina – a dimostrazione della sua natura inconsueta ed originale - un tono ironico, naturalmente estraneo al registro classico tradizionale. Ciononostante, la sua rimane una poesia classica nella forma - a dispetto della brevità che caratterizza la maggior parte dei suoi componimenti - poiché improntata ad una ricchezza e ricercatezza linguistica, di matrice tipicamente classica. 


Nordbrandt, totalmente refrattario alle mode, ha improntato l’intera sua produzione e ricerca poetica ad una fisionomia coerente, tanto che l’evoluzione che si osserva nella sua scrittura nel corso del tempo, riflette semplicemente la sua traiettoria esistenziale e del vissuto personale in maniera fisiologica: anche in questo senso Nordbrandt si astrae dal panorama dominante nella poesia scandinava a lui contemporanea, piuttosto protesa invece verso un lavoro ed un approccio di revisione sperimentale e realistica. La continuità delle sue scelte stilistiche è evidenziata dal fatto che nella sua raccolta pubblicata nel 1999 e tradotta in Italia da Donzelli nel 2000 – intitolata “Il nostro amore è come Bisanzio” - le poesie presenti non seguono la cronologia della loro pubblicazione, ma sono collocate con una sorta di andamento a zig zag tra i vari periodi.

Le sue peregrinazioni fra Grecia, Turchia ed in misura inferiore Spagna, muovono da un distanziamento che egli ha sempre avvertito, già in gioventù, nei confronti della Danimarca e del suo ambiente culturale e letterario, così come verso il quadro degli avvenimenti politici danesi, attitudine che l’ha condotto verso quello che è stato è un vero e proprio viaggio antropologico, sostanzialmente mirante - come sempre nel viaggio antropologico - alla conoscenza più approfondita di sé e del proprio universo, per giungere successivamente - come sempre nel viaggio antropologico - ad una riscoperta ed una riappropriazione del suo cosmo di partenza, ma con un ampiamento di prospettiva.

Non è un caso se la sua poesia più celebre – omonima del titolo della suddetta raccolta edita da Donzelli - sia altresì una delle poesie che più emblematicamente rivelino il fondamento del suo amore per il mediterraneo e la sua natura errabonda: in essa, Nordrandt paragona l'amore alle antiche icone orientali ad un incendio lontano, con accostamenti imprevedibili ed una particolare intonazione musicale.

La poesia di Nordbrandt è corredata (cosa non scontata per la poesia scandinava) da testi in rima, moduli metrici che conferiscono un tono di canto ed un pathos funzionali alla sua costruzione di senso e che dà vita a immagini nuove, influenzate ancora una volta dal suo amore per le culture mediterranee: un’influenza anche direttamente letteraria e poetica, tributaria alle letture febbrili di Kavafis, Seferis e di tanta tradizione ottomana e persiana e che si appalesa in una certa tendenza all’arabesco. 

Il suo interesse per i paesi mediterranei è evidentemente depurato da qualsivoglia legame con il tradizionale viaggio dell'uomo del Nord alla ricerca di mondi esotici e idealizzati, essendone l’unico vero veicolo il suo sentimento di estraneità e di irrequietezza. La sua attrazione per il Mediterraneo è in fondo più la celebrazione di un’assenza, termine che non a caso ritorna spesso nei suoi componimenti (tanto che il suo traduttore italiano Bruno Berni l’ha anche definito “poeta dell’assenza”); egli è ammaliato dal Mediterraneo, ma è consapevole di come questo per lui rimanga un mondo “altro”, ben sapendo di rimanere profondamente danese nell’anima, al tempo stesso, come abbiamo visto, non essendosi mai totalmente identificato in questa sua estrazione. La sua opera è costantemente attraversata dalla diffusa sensazione di trovarsi sempre nel luogo e nel momento sbagliato. In una tale condizione di spaesamento il poeta è solo: solo di fronte al mondo che osserva e descrive nelle sue metafore, solo di fronte all'amore, solo nell'inquieto passaggio dall'uno all'altro degli innumerevoli luoghi che popolano i suoi scritti. 


Una caratteristica della sua scrittura è l’epilogo dei componimenti con una sorta di chiusa verso quanto è stato visto o mostrato: dunque un “poeta dell’assenza” che si serve di una “scrittura del congedo”, per parafrasare un’altra definizione del suo curatore italiano Bruno Berni. Questa traccia conclusiva fa da collante a testi tra loro molto diversi e nel contempo la sua autoironia, il graffiante sarcasmo, l'elementare sensualità della sua lingua impediscono alla poesia di Nordbrandt di rinchiudersi nella commiserazione di sé e del mondo, aprendola piuttosto ad un dialogo positivo con la realtà, il che rende la voce del poeta danese atipica nel panorama della lirica a lui contemporanea e conterranea.

La sua traiettoria erratica, come detto, non può che prevedere il ritorno, come nella tradizione dell’itinerario antropologico e difatti nei suoi scritti più recenti, al confronto con l'alterità del mondo mediterraneo si è affiancata la riscoperta del paesaggio danese, dell'intimità del rapporto con i luoghi d'origine, contestualizzati però in una cornice intellettuale più ampio. In questo percorso, lo sguardo del poeta è sempre rivolto verso un altrove, in un continuo alternarsi di partenze e arrivi, di luoghi e di momenti, che trova la sua cifra, la sua costante in una sorta di “non appartenenza”: prova ne sia, tanto la distanza che si può rinvenire nella lettura dei suoi versi, tra il sé poetico e l’oggetto, quanto proprio questa riscoperta dell’ambiente d’origine, che gradualmente diviene un tema centrale nella sua produzione poetica; così, mentre il suo disagio verso la Danimarca acuisce l’attrazione verso luoghi “altri”, i suoi soggiorni letterari lontani dal mondo domestico, contribuiscono alla saldatura del rapporto con il suo paese ed il suo ambiente.

La sua poesia, diventa una poesia della memoria, nella quale spiccano l’attenzione per i luoghi, la tematica amorosa, le riflessioni sulla morte e la natura, con una descrizione che accomuna i vari argomenti trattati mediante un tono che evidenzia la malinconia per il momento fuggente e la speranza del domani, alla ricerca dell’attimo trascendente di fusione tra passato e futuro. Il viaggio è essenziale per l’anima del poeta, in quanto gli permette di coltivare la propria necessità di mantenere una prospettiva policentrica sul mondo.

In definitiva il viaggio, in quanto ricerca di un’assenza, per Nordbrandt assurge ad allegoria dell’esistenza, poiché ciò che il poeta danese sembra voler sostenere, è l’idea che solo la poesia possa eternare il momento, l’istante, lenendo la malinconia, perché paradossalmente lo stesso istante sembra poter essere compreso appieno solo nel mentre si dissolve.


Dal punto di vista espressivo, in Nordbrandt è fondamentale il divario tra parola e cosa, tra mondo e linguaggio, che consente di definire la sua visione poetica, poiché nel cercare quel legame mancante, il significato diventa mito, facendo scaturisce l'opportunità della creazione poetica.

Tale dinamica risalta in modo più immediato ed efficace nella sua poesia amorosa: come nel caso dell'assenza di significato nel mondo, è l'assenza dell'amata che lo stimola a parlare di lei, e le immagini che fanno parte di quegli atti verbali servono come consolazione per il parlante. In entrambi i casi – il viaggio ed il rapporto con la natura da un lato e la tematica amorosa dall’altro - il poeta sembra spinto da un’irrequietezza che è splendore ed inquietudine nel contempo ed entrambe le dimensioni si rivelano strumenti indagatore del cosmo, al punto che in molti brani di Nordbrandt, sentimento amoroso e descrizione geografica si incrociano, come possiamo apprezzare in Verso l’Africa:” E il tuo corpo, che è stanco di viaggiare / come una tribù nomade in estinzione / trasforma la mia anima nel mio sesso / mentre i miei pensieri diventano femminili”. 

La comunanza dei due ripiani si evince in particolare nella sua raccolta Glemmesteder (1991), in cui piange la perdita della sua compagna Ingrid. Pur affrontando quello che è una delle prove più dure che la vita possa infliggere, Nordbrandt dimostra di trovare conforto proprio nella alla poesia, dando vita ad alcune delle sue migliori composizioni.

La variazione più significativa introdotta dal poeta danese nel registro linguistico ed espressivo della sua produzione, ci appare con Guds Hus (La casa di Dio) del 1977, con la comparsa di quella che è stata definita come “ascesi linguistica”. In questa raccolta per la prima volta, sembra sfumare il volume delle metafore arabeggianti e del pathos orientale, per lasciare spazio a quelli che possono apparire come brandelli di poesie o scritti fugaci, che sembrano fissarsi sulla pagina con grande levità, adoperando un vocabolario accuratamente limitato. In realtà si tratta di una scelta minimalista, in grado di approdare in modo più diretto, quasi pre-analitico, a fissare sul quadrante del poeta la complessità dell’esperienza umana, mediante l’adozione di una lingua più piana ed in certi casi della tecnica del frammento, tutt’altro che inconsueta nella tradizione scandinava. La sua esperienza poetica si arricchisce definendosi ulteriormente, e da questo momento tali modalità espressiva, compaiono spesso nell’ usus scribendi di Nordbrandt, accanto ad altri scritto che invece riverberano ancora la sua tendenza più classicheggiante. L’intero volume è composto da brani che sembrano diramarsi in varie possibile direzioni, per lasciarsi infine incanalare in una suite il cui motivo conduttore ed unificante è il sottofondo rappresentato dall’immagine dell’accoglienza, del calore che la casa del Padre restituisce dopo le fatiche dell’eterno vagabondare.

In Guds hus, la tensione nomadica di Nordbrandt sembra per un attimo placarsi, nell’illusione temporanea del tepore del luogo e della casa, che si rivela però alla fine essere solo un ennesimo soggiorno temporaneo, tra le varie partenze e arrivi, poiché se l’approdo al luogo è carico di promesse, il luogo stesso finisce per essere vissuto dal poeta come una cattura, sotto il peso dei ricordi che rendono pietre le parole e che perciò inducono a ripartire, nell’illusione di un’ennesima nuova rotta. 

Una delle sintesi più belle ed efficaci per descrivere l’opera di Nordbrandt è senza dubbio quella individuata da Saverio Simonelli nell’introduzione all’opera del poeta danese contenuta nel blog Inoltre (https://inoltreilblog.wordpress.com/2014/10/14/i-volti-e-lattesa-di-henrik-nordbrandt/), in cui pone in risalti: «L’infinito, interminabile dissidio tra l’aspettativa dell’umano e l’apparente indifferenza di tempi e cose che lo attraversano. Che vive di una tensione quieta, come in attesa di una scintilla che la animi e che scagli ciò che c’è dentro da qualche parte. Ecco: questa è la poesia di Nordbrandt: luce, come quella che può trasparire nel volto di una donna e che dà colore ad una poesia apparentemente algida».



POESIE


La rosa di Lesbo

Ho ricevuto questa rosa da una donna sconosciuta

quando stavo andando in una città sconosciuta.

-E ora che sono stato in città

Ho dormito nei suoi letti, giocato a carte sotto i suoi cipressi

mi sono ubriacato nelle sue taverne

e ho visto la donna andare e venire e venire e andare

non so più dove gettarla via.


Ovunque sono stato, aleggia il suo profumo.

E ovunque non sono stato

I suoi petali vizzi giacciono accartocciati nella polvere.



Rosen fra Lesbos

Jeg har fået denne rose af en ukendt kvinde

da jeg var på vej ind i en ukendt by.

-Og nu da jeg har været i byen

sovet i dens senge, spillet kort under dens cypresser

drukket míg fuld på dens tavernaer

og set kvinden komme og gå og gå og komme

ved jeg ikke længere, hvor jeg skal kaste den fra míg.


Overalt hvor jeg har været, hænger dens duft.

Og overalt hvor jeg ikke har været

ligger dens visne blade sammenkrøllet i støvet.


(Da: “Ode til blæksprutten og andre kærlighedsdigte”, 1975)



Dovunque Andiamo

Dovunque andiamo, arriviamo sempre troppo tardi

a ciò che un tempo siamo partiti per trovare.

E in qualsiasi città ci fermiamo

sono le case cui è troppo tardi per tornare

i giardini in cui è troppo tardi per trascorrere una notte di luna

e le donne che è troppo tardi per amare

a tormentarci con la loro impalpabile presenza.

E qualsiasi strada ci sembri di conoscere

ci porta lontano dai giardini fioriti che cerchiamo

e che diffondono il loro pesante odore nel quartiere.

E a qualsiasi casa torniamo

arriviamo a notte troppo tarda per essere riconosciuti.

E in qualsiasi fiume ci specchiamo

vediamo noi stessi solo dopo aver voltato le spalle.


Hvor vi end rejser hen

Hvor vi end rejser hen, kommer vi altid for sent

til det vi engang tog af sted for at finde.

Og i hvilke byer vi end opholder

os er det de huse, det er for sent at vende tilbage til

de haver, det er for sent at tilbringe en måneskinsnat i

og de kvinder, det er for sent at elske

som plager os med deres uhåndgribelige nærvær.

Og hvilke gader vi end synes at kende

fører de os uden om de blomsterhaver, vi leder efter

og som spreder deres tunge duft i kvarteret.

Og hvilke huse vi end vender tilbage til

ankommer vi for sent om natten til at blive genkendt.

Og hvilke floder vi end spejler os i

ser vi først os selv når vi har vendt ryggen til.


(Da: “Opbrud og ankomster”, 1974)


In un porto del Mediterraneo

Io non so cosa sia più importante:

        la dolcezza speziata del caffè amaro

mescolata al gusto della prima sigaretta del mattino

       o l’odore di pesce e barche verniciate di fresco.

I vestiti sbiaditi sul filo fra i mandorli in fiore

       o i monti che li mettono in risalto…

No, nulla di ciò, ma tutte queste cose insieme

       rivelano che ho trascurato qualcosa

e che la sua presenza mi tormenterà per il resto della vita

      perché l’ho ignorato mentre era qui.


I en middelhavshavn

Jeg ved ikke, hvad der er det vigtigste:

     Den bitre kaffes krydrede sødme

blandet med smagen af morgenens første cigaret

     eller lugten af fisk og nymalede både.

De falmede kjoler på snoren mellem de blomstrende mandeltræer

     eller bjergene, som fremhæver dem…

Nej, ingen af delene, men dem alle sammen tilsammen

     røber at jeg har udeladt noget

og at dets nærvær vil pine mig resten af mit liv

     fordi jeg overså det, mens det var der.


(Da: “Omgivelser”, 1972)


Voglio possederti

Voglio possederti, devi essere mia.

Il tuo corpo, i più profondi

segreti della tua anima

devono essere mia proprietà.

Non devi avere un capello

non un dente

non un singolo angolo buio

nei tuoi pensieri

che non mi appartenga.

Come potrei altrimenti

venderti

per mucchi di argento e oro

preziose pietre

e ogni possibile genere di lusso?

O chissà?

Magari solo un bicchiere di vino

una notte con una puttana

un pugno di perle di vetro colorate

o un povero coltello

col manico di corda.

Come potrei altrimenti sapere

cosa significa perderti?

In che modo

misurare la tua assenza?

Perderti devo comunque.

Ogni giorno ti perdo un po’.

Nei mercati d’Oriente

voglio incettare cose come quelle

per cui avrei potuto venderti

piccole cose

che mi ricorderanno gli invisibili sonagli

che i tuoi movimenti sempre

fanno echeggiare nell’aria

e un enorme torrente di seta

come il punto

in cui il tuo collo incontra le spalle.

E se improvvisamente un giorno

casualmente ti incontrassi

ti regalerei ogni cosa.


Jeg vil eje dig

Jeg vil eje dig, du skal være min.

Din krop, din sjæls

dybeste hemmeligheder

skal være min ejendom.

Du skal ikke have et hår

ikke en tand

ikke en eneste mørk krog

i dine tanker

som ikke tilhører mig.


Hvordan skal jeg ellers

kunne sælge dig

for dynger af sølv og guld

kostbare stene

og alle mulige luxusvarer?

Eller hvem ved?

Måske blot for et glas vin

en nat med en luder

en håndfuld kulørte glasperler

eller en tarvelig kniv

med håndtag af sejlgarn.


Hvordan skal jeg ellers få at vide

hvad tabet af dig betyder?

Med hvad

måle dit fravær?


Miste dig skal jeg alligevel.

Hver dag mister jeg dig lidt.

På Orientens markeder

vil jeg opkøbe sådanne ting

som jeg kunne have solgt dig for

små ting

der vil minde mig om de usynlige bjælder

dine bevægelser hele tiden

får til at ringe i rummet

og en vældig strøm af silke

som det sted

hvor din hals møder dine skuldre.


Og hvis jeg pludselig en dag

tilfældigt skulle møde dig

ville jeg forære dig det hele.

(Da: “Violinbyggernes by”, 1985)


Verso l’Africa

Quando scivoliamo l’uno nell’altra

i nostri volti si fanno più nitidi

sui segreti colori della terra

che si mescolano in un alone verde turchese

del centro rosso rubino

che ci scaglia fuori nella notte estiva

finché il miele selvatico comincia

a gocciolarci dalle punte delle dita.

E il tuo corpo, che è stanco di viaggiare

come una tribù nomade in estinzione

trasforma la mia anima nel mio sesso

mentre i miei pensieri diventano femminili

e fuggono, casti come polene

seguiti da una scia di sangue e profumo.

E il tuo profilo egizio si volta

verso il riflesso di un sapere obliato dei tuoi occhi nei miei

e fa accendere una serie di invisibili lettere che dicono

come tutto è già scritto, ma nulla è stato letto

finché non sarà scritto ancora, dalla mia vita sulla tua e dalla tua sulla mia

mentre uno di noi è sempre diretto da sud a nord

e l’altro sempre diretto da nord a sud.


Mod Afrika

Når vi flyder ind i hinanden

bliver vores ansigter tydeligere

på de hemmelige jordfarver

der blandes i et turkisgrønt skær

af det rubinrøde center

som slynger os ud i sommernatten

til vild honning begynder

at dryppe fra vores fingerspidser.

Og din krop, der er træt af at rejse

som en uddøende nomadestamme

forvandler min sjæl til mit køn

mens mine tanker bliver kvindelige

og flygter, kyske som galionsfigurer

fulgt af et spor af blod og parfume.

Og din ægyptiske profil vender sig

mod dine øjnes genspejling af en glemt viden inde i mine

og får en række usynlige skrifttegn til at lyse hvor der står

at alt allerede er skrevet, men intet blevet læst

før det er skrevet en gang til, af mit liv på dit og af dit liv på mit

med den ene af os altid på vej fra syd til nord

og den anden altid på vej fra nord til syd.


(Da: “Violinbyggernes by”, 1985)


Giorni alla fine di marzo

I giorni vanno in una direzione

i volti nell’altra.

Senza sosta si prestano luce.


Molti anni dopo è difficile

stabilire quali fossero giorni

e quali volti...


E la distanza fra le due cose

sembra più incolmabile

di giorno in giorno e di volto in volto.


È questo che vedo nel tuo volto

in questi chiari giorni alla fine di marzo.


Dage sent i marts

Dage bevæger sig i én retning

ansigter i den modsatte.

Uophørligt låner de hinandens lys.


Mange år efter er det vanskeligt

at afgøre hvad der var dage

og hvad der var ansigter . . .


Og afstanden mellem de to ting

føles mere uoverskridelig

dag for dag og ansigt for ansigt.


Det er det jeg ser på dit ansigt

Disse lysende dage sent i marts.


(Da: “Ode til blæksprutten og andre kærlighedsdigte”, 1975)


Caffe’ all’aperto

pioviggina un po’

ma non abbastanza perché si possa proprio

chiamarla pioggia


e noi lentamente ci bagniamo

ma non abbastanza perché valga proprio

la pena di parlarne


e un po’ ci innamoriamo

ma non abbastanza perché si possa proprio

chiamarlo amore.


Fortovscafé

det stænker en smule

men ikke så meget, at man ligefrem

kan kalde det regnvejr


og vi bliver langsomt våde

men ikke så våde, at det ligefrem

er noget at tale om


og en smule forelskede

men ikke så meget, at man ligefrem

kan kalde det elskov.


(Da: “Syvsoverne”, 1969)


La casa di Dio

Cominciai presto, a grande distanza,

quando le mie parole erano ancora solo parole.


All’ ora di pranzo erano diventate pietre,

quando le pietre sembravano troppo leggere

e i miei passi continuavano la memoria

che non riusciva più a tenergli dietro.


La strada era ancora al suo inizio

più incerta a ogni istante

che superava le stesse grigie rocce.

Venni scoperto dalla mia ombra,

quando l’ombra scomparve sotto di me

ma non abbastanza a lungo da fermare il mio discorso.


Ciò che dicevo non riusciva più

a sopportare il peso del tempo che passava.

Perciò avanzavo camminando all’indietro.

Lancio dopo lancio le pietre mi raccoglievano

dal paesaggio sul quale cadevano.

Il senso di tutto divenne il suono

della mia mezza impresa. Non andava.

Non era più possibile camminare

laddove l’incedere era ascoltare la propria fine.

Laddove le pietre pronunciavano forte il proprio peso

e ogni parola soppesava la sua particolare pietra

man mano che le raccoglievo.


Così abbiamo costruito la Casa di Dio.

La Casa di Dio non ha un grande aspetto:

qualche muro irregolare e giallastro,

dal quale sono cadute scaglie di calce,

imposte che si agitano al vento,

un tempo verniciate di verde, ora grigiastre,

e sopra le mura un tetto di tegole

che sembra tenere insieme le mura

come le mura tengono su il tetto.


Una casa che sta diventando una rovina,

circondata da un giardino inselvatichito

innaffiato dalle cisterne sotto la casa

che riempiono l’edificio di un’eco d’estate,

man mano che l’estate svuota le cisterne

– un’eco che può far crollare la casa

se si fa più forte del rumore del vento.


Vivere nella Casa di Dio è una severa disciplina

che ti purifica, se la rispetti

– col sudore impolverato che devi tenerti sul corpo,

la sete che non puoi mai permetterti di spegnere del tutto

e la febbre che ti dona queste immagini

attraverso le gocce alle quali devi rinunciare,

di un’asprezza insicura come miraggi o iceberg che figliano.


Un amico mi chiese la strada

per la Casa di Dio.

Mi strinsi nelle spalle e dissi:

– Chiedi alla padrona di casa.

Se mi avesse preso sul serio

ci sarebbe arrivato.

(Da: “La casa di Dio”, 2017)


Guds Hus 

Jeg startede tidligt, på stor afstand,

da mine ord endnu kun var ord.

Ved middagstid var de blevet til sten,

da stenene syntes alt for lette

og mine skridt fortsatte erindringen,

som ikke længere magtede at følge med.


Vejen var stadig sin egen begyndelse

mere uvis for hvert øjeblik

den passerede de samme, grå klipper.

Jeg blev gennemskuet af min skygge,

da skyggen forsvandt under mig

men ikke længe nok til at standse min tale.


Hvad jeg sagde kunne ikke længere

bære vægten af tiden, som gik.

Derfor gik jeg fremad ved at gå tilbage.

Kast for kast samlede stenene mig op

fra det landskab, de slog ned på.

Meningen med det hele blev selve lyden 


af mit halve forehavende. Det gik ikke.

Det var ikke længere muligt at gå,

hvor gangen var lytten til sit eget ophør.

Hvor sten udsagde højt sin egen vægt

og hvert ord vejede sin specielle sten

efterhånden som jeg samlede dem op.


Således byggede vi Guds Hus sammen.

Guds Hus ser ikke ud af meget:

Nogle ujævne, hvidgule mure,

som kalken er faldet af i flager,

skodder, der svinger i vinden

grønmalede engang, grålige nu

og over murene et tegltag,

der synes at holde murene inde

som murene holder taget oppe.


Et hus på vej til at blive en ruin

omgivet af en vildtvoksende have,

der vandes af cisternerne under huset

som fylder huset med et ekko af sommeren,

efterhånden som sommeren tømmer cisternerne

– et ekko som kan få huset til at styrte sammen,

hvis det bliver højere end lyden af vinden.


At leve i Guds Hus er en streng disciplin

der renser dig, hvis du overholder den

– med den støvede sved, du må lade sidde på din krop,

tørsten, du aldrig kan tillade dig at slukke helt

og feberen, som skænker dig disse billeder

gennem dråberne, du må give afkald på,

usikkert skarpe som luftspejlinger eller kælvende isbjærge.


En ven spurgte mig om vejen

til Guds Hus.

Jeg trak på skulderen og sagde:

– Spørg værtinden.

Hvis han havde taget mig alvorligt,

ville han have været der

med det samme.

(Da: “Gods Hus”, 1977)


Lettera

Se un giorno ci venisse in mente di incontrarci

(cosa di cui in fondo dubito)

allora per amor di Dio scegliamo un luogo

in cui nessuno di noi e’ mai stato prima.

Una qualche isola in disparte nell’Egeo

o una spiaggia nei pressi di Alessandria.

Un posto dove i giardini notturni non ci portino

subito a vedere noi stessi

come fantasmi, dove la gente scorgendoci

non finisca subito per pensare

a chi è morto dopo il nostro ultimo incontro

e dove non compariamo nelle loro storie.

Potremmo passare la notte insieme

a bere, a parlare di nulla

e magari remare sul mare al chiaro di luna

e se non ci venisse in mente di annegarci

potremmo separarci prima dell’alba

felici, prima di essere tornati sobri.

– Se dunque esiste un posto così

(cosa di cui come ho detto dubito)

un posto in cui persino certi tardi sprazzi di sole

e i profumi di certi alberi notturni

di tanto in tanto non ci ricordino che abbiamo provato

tutto questo tante volte prima, senza successo.


Oppure lasciamo perdere l’idea di incontrarci.


Brev

Hvis vi en dag skulle finde på at mødes

(hvilket jeg i grunden tvivler på)

ùså lad os da for Guds skyld vælge et sted

hvor ingen af os har været før.

En eller anden forlagt ø i Ægæerhavet

eller en strand nær Alexandria.

Et sted, hvis natlige haver ikke straks

får os til at opleve os selv

som spøgelser, hvor folk ved synet af os

ikke straks kommer til at tænke

på den som døde siden vi sidst sås

og hvor vi ikke optræder i deres historier.

Vi kunne tilbringe natten sammen

med at drikke, tale om ingenting

og måske ro ud på havet i måneskinnet

og hvis vi ikke fandt på at drukne os

skilles lige inden solopgang

lykkelige, inden vi var blevet ædru.

- Hvis der altså findes et sådant sted

(hvilket jeg som sagt tvivler på)

et sted hvor selv visse sene solstrejf

og visse natlige træers dufte

ikke nu og da minder os om at vi har forsøgt

alt dette så mange gange før, uden held.


Ellers lad os opgive tanken om at mødes.

(Da: “Omgivelser”, 1972)


Il nostro amore è come Bisanzio

Il nostro amore è come Bisanzio

dev’essere stata

l’ultima sera. Dev’esserci stato

immagino

un alone sui volti

di chi si affollava nelle vie

o sostava in piccoli gruppi

agli angoli delle strade e nelle piazze

e parlava a bassa voce

un alone che doveva ricordare

quello che ha il tuo volto

quando ne scosti i capelli

e mi guardi.


Immagino che non parlassero

molto, e di cose

piuttosto indifferenti,

che cercassero di parlare

e si bloccassero

senza aver detto quanto volevano

e cercassero ancora

e rinunciassero ancora

e si guardassero

e abbassassero gli occhi.


Le antichissime icone per esempio

hanno in sé quell’alone

come il bagliore di una città in fiamme

o l’alone che la morte imminente

trasmette alle foto dei morti precoci

nella memoria dei superstiti.


Quando mi volto verso di te

nel letto, ho la sensazione

di entrare in una chiesa

distrutta dalle fiamme

molto tempo fa

in cui solo il buio negli occhi delle icone

è rimasto

piene delle fiamme che le hanno cancellate.


Vores kærlighed er som Byzantium

Vores kærlighed er som Byzantium

må have været

den sidste aften. Der må have været

forestiller jeg mig

et skær over ansigterne

på dem der flokkedes i gaderne

eller stod i små grupper

på gadehjørner og torve

og talte lavmælt sammen

der må have mindet

om det skær dit ansigt har

når du stryger håret tilbage fra det

og ser på mig.


Jeg forestiller mig de ikke har talt

ret meget, og om ret

ligegyldige ting,

at de har forsøgt at tale

og er gået i stå

uden at have fået sagt hvad de ville

og har forsøgt igen

og opgivet det igen

og set på hinanden

og slået øjnene ned.


Meget gamle ikoner f.eks.

har det skær over sig

som ildskæret fra en brændende by

eller det skær kommende død

efterlader på fotografier af tidligt døde

i de efterladtes erindring.


Når jeg vender mig mod dig

i sengen, har jeg en følelse

af at træde ind i en kirke

der er blevet brændt ned

for længe siden

og hvor kun mørket i ikonernes øjne

er blevet tilbage

fulde af de flammer, der udslettede dem.

(Da: “Ode til blæksprutten og andre kærlighedsdigte”, 1975)

N.B. Tutte le traduzioni italiane, eccetto La casa di Dio, estratta dal volume omonimo edito da Kolibris nel 2017, sono estratte da, “Il nostro amore è come Bisanzio, Donzelli, 2000. Entrambi i volumi sono curati e tradotti da Bruno Berni.


Elenco dell opere

  • Digte (Poesie, 1966)
  • Miniaturer (Miniature, 1967)
  • Syvsoverne (Gli ultimi dormienti, 1969)
  • Omgivelser (Dintorni, 1972)
  • Opbrud og ankomster (Partenze e arrivi, 1974)
  • Ode til blæksprutten og andre kærlighedsdigte (Ode al calamaro ed altre poesie d’amore, (1975)
  • Glas (Vetro, 1976)
  • Istid (Era glaciale, 1977)
  • Guds hus (La casa di Dio, 1977)
  • Breve fra en ottoman (Lettera da un ottomano, 1978)
  • Rosen fra Lesbos (La rosa di Lesbo, 1979)
  • Spøgelseslege (Giochi di fantasmi, 1979)
  • Forsvar for vinden under døren (Riparo dal vento sotto la porta, 1980)
  • Armenia (1982)
  • 84 digte (84 Poesie, 1984)
  • Violinbyggernes by (La città dei liutai, 1985)
  • Håndens skælven i november (La mano tremava a novembre, 1986)
  • Vandspejlet (Il livello dell’acqua, 1989)
  • Glemmesteder (Luoghi dimenticati, 1991)
  • Støvets tyngde (Il peso della polvere, 1992)
  • Ormene ved himlens port (I vermi alla porta del paradiso, 1995)
  • Egne digte (Poesie proprie, 1999)
  • Drømmebroer (I ponti del sogno, 2000
  • Besøgstid (Orario di visite, 2007)
  • 3 ½ D (2013)


Traduzioni italiane

  • Il nostro amore è come Bisanzio, (poesie scelte), traduzione di Bruno Berni, Roma, Donzelli, 2000. 
  • La casa di Dio, traduzione di Bruno Berni, Ferrara, Kolibris, 2014


Consiglio di lettura dell’autore

Senza ombra di dubbio, il punto di riferimento in lingua italiana per poter approfondire significativamente l’opera di Nordbrandt è Il nostro amore è come Bisanzio, opera antologica edita da Donzelli nel 2000, che fondalmentalmente è la traduzione di Egne Digte, raccolta ontologica pubblicata in Danimarca l’anno precedente, con alcune differenziazioni volute dal curatore, in conseguenza del fatto che fosse la prima traduzione assoluta in Italia del corpus poetico dell’artista danese. Si tratta di un volume di gradevole lettura, di assoluto valore e poetica e che conquista per la capacità di Nordbrandt di saper affrontare temi classici, senza alcuna impalcatura erudita e con grande immediatezza descrittiva ed accompagnandoli con la sua piacevolissima ironia.


Mi permetto altresì di segnalare quest’intervista al poeta contenuta sulla piattaforma Youtube.

(intervista in danese sottotitolata in inglese), in cui Nordbrandt ripercorre in maniera saliente la sua storia poetica, toccando diversi punti fondamentali.