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Sinéad O'Connor This Is a Rebel Song: un ricordo di Sinéad O' Connor
Carlo Puddu, fondatore del gruppo Facebook Glen Hansard Lucca, apparso nel documentario sugli U2 A Sort of Homecoming with David Letterman, diretto dal premio Oscar Morgan Neville e prodotto da Ron Howard.
"Buon viaggio Sinéad
Nella colonna sonora del capolavoro di Jim Sheridan Nel nome del Padre, c’era la canzone You Made Me the Thief of My Heart con Sinéad O’Connor che dava sfogo alla propria anima celtica, lamentandosi come una banshee di un’isola sperduta.
Sinead O’Connor non c’è più, morta a soli 56 anni.
Sinéad O'Connor non era solo l’interprete di una canzone di Prince; Sinéad era un’artista catapultata nell’universo pop, ma troppo fragile e tormentata per uscirne viva.
Con grande coraggio aveva messo a nudo la sua infanzia fatta di abusi e violenze sessuali, lo aveva fatto nel modo più vistoso e pericoloso che poteva fare: al Saturday Night Live, durante una sua versione di War di Bob Marley, cambiò le parole finali per accusare i pedofili che venivano protetti dal silenzio e dall’ipocrisia della Chiesa cattolica e in diretta strappò la foto di Papa Woityla: “Conosci il tuo vero nemico!”
Questo segnò la sua fine. Sinéad si sfracellò al suolo. Troppo fragile e sensibile per resistere all’onda d’urto che la schiacciò, difesa solo da pochi amici e artisti, ma derisa da tutto lo show business, da Frank Sinatra a Joe Pesci, fino alla derisione pubblica perpetrata dalla collega Madonna, che si mostrò per quello che era.
Sinéad o’ Connor non c’è più.
Quello che resta sono le sue canzoni e la sua voce speciale: Mandinka, Drink Before the War, The Emperor’s New Clothes, The Lady of the Acquaintance, Thief of My Heart, Nothing Compares 2 U, Heroine, This Is a Rebel Song, I’m Enough for Myself.
Sinéad O’Connor era una ribelle che piace vedere come una pazza, una donna senza una voce di plastica. Un’artista e una donna troppo sottile e sincera.
Questa è la storia di una dublinese coraggiosa, un’artista con una voce antica come il dolore e un sorriso disarmante.
Buon viaggio, beautiful banshee!"
Luca Di Pinto
"Di Sinéad si conosce tutto. O forse poco. Tanto per cominciare, restano impresse un po’ di cose: tralasciando i clamori discografici legati al pezzo di Prince (l’edito più inedito che ci sia), non si può rimanere indifferenti al suo talento. Non solo canoro, non solo artistico, seppur con l’eterno sospetto della classica opera lasciata a metà, talvolta sommariamente liquidata al pari di stoffa a buon mercato (può citarsi al riguardo lo splendido manifesto reggae Throw Down Your Arms). Anche il suo talento di acuta mente combattiva, anticonformista, provocatrice, coraggiosa, imbottigliata nel soffocante traffico di complessi ingranaggi a cui pagar dazio.
Si è tuffata in ogni dove, Sinéad. Ha portato all’estremo lotte personali, esperimenti, conoscenze musicali. Raramente risparmiandosi, anzi, assorbendo tutto senza filtri e accentuandone i riflessi di spiritualità.
Senza scadere nella retorica e in affreschi stucchevoli, è al solito ardua l’impresa di bussare agli intimi accessi di chi ci lascia. Ci si tinge di imbarazzo, di pudore, anche solo per il rischio di contaminarne la dimora di ricordi. A lei, Sinéad, va il pensiero di un abbraccio, di una carezza. Figlia di un tempo malato, famelico, beffardo, sempre più alloggio di anime dannate. Resta il varco sensibile dei suoi occhi, tondi, giganti, allagati dai rovesci di vicende personali. Specchio fedele di uno sguardo profondo e delicato".
Alessandro Ronchi. Sinéad O'Connor: I Do Not Want What I Haven't Got
Esistono momenti spartiacque nella cultura pop recente, immagini icona. È il 3 ottobre 1992 e Sinéad O'Connor è una delle più recenti acquisizioni nello star system delle super popstar in apertura di un decennio senza più macroconflitti, che sembra non chiedere altro ed è quindi pronto a garantire alle popstar spazi, fama, ricchezza praticamente illimitati. Anche alle più improbabili, come Kurt Cobain che meno di due anni più tardi soccomberà alle variabili impazzite di un'industria culturale euforica. La struggente, iperuranica versione di Nothing Compares 2 U di Prince, uno dei più grandi successi globali del 1990, è stata il propulsore del successo per Sinéad O'Connor che ora, come tutte le super popstar, è invitata a cantare al Saturday Night Live, uno dei più vasti palcoscenici televisivi americani. Ha concordato con la produzione una cover di War di Bob Marley cui sarebbe seguita una denuncia generica dello sfruttamento minorile nel mondo e l'esposizione a beneficio di camera della foto di un bambino assassinato dalla polizia brasiliana. Perciò chiede e ottiene l'inquadratura stretta, in close up. Al momento decisivo accade l'impensabile. Sinéad estrae una foto, ma non c'è traccia del bimbo brasiliano. Si tratta invece dell'immagine di Karol Wojtyla, papa in carica. La foto viene stracciata in diretta tv davanti a milioni di spettatori con Sinéad, sguardo fisso in camera, che scandisce “Fight the real enemy" e termina la performance in un atterrito silenzio surreale.
Diciamo performance, perché si tratta a tutti gli effetti di un momento di performance art agit prop che nulla ha in comune e esorbita in ogni modo il perimetro dell'esibizione promozionale televisiva e parliamo anche di azione perché il gesto di Sinéad O'Connor ricorda, fin dalla prossemica, le azioni kamikaze. Lo sguardo è impassibile, marziale; il volto rimanda a quello di Giovanna d'Arco nell'incarnazione canonica di Renée Falconetti per il capolavoro di Dreyer e come Giovanna d'Arco appare ispirata e incrollabile; il gesto è preciso, al contempo liturgico e deflagrazione di liturgia. Nel silenzio che segue Sinéad spegne una per una le candele accese sul palco e se ne va. È una liturgia della liberazione opposta alla liturgia del consenso, dell'evasione, del mainstream che chiunque si sarebbe atteso dal contesto. Sinéad O'Connor con cranio rasato e abito bianco è sacerdotessa, ninja, terrorista, skinhead punk. È molto riduttivo circoscrivere l'atto e l'icona a una semplice contrapposizione dicotomica personale ma aiuta in qualche modo a comprenderne la portata simbolica dirompente. Nel 1992 Karol Wojtyla è il campione dell'Occidente capitalista trionfante, l'uomo che ha abbattuto il muro di Berlino e il papa rockstar che a colpi di adunate oceaniche ha reso di nuovo cool la religione cattolica. Poco importa se l'ossessione anticomunista l'ha portato ad appoggiare il regime di Pinochet e le giunte militari sudamericane, ad avvallare le più spericolate operazioni finanziare in collusione con la criminalità organizzata e le organizzazioni eversive di destra e che l'incrollabile, dottrinale opposizione all'utilizzo del preservativo ne faccia un vero e proprio genocida in piena pandemia AIDS. Il suo aspetto massiccio e la forte e imponente presenza fisica oltre ovviamente al ruolo di capo della più longeva setta oppressiva dei corpi, in particolare i corpi femminili, che la storia umana abbia conosciuto ne fanno una alterità assoluta rispetto a una fragile, minuta cantante femminista irlandese. Ci vuole un coraggio immenso a sfidare il mondo intero e il coraggio è stata la cifra cardinale in ogni ambito in cui si è mossa Sinéad O'Connor.
La reazione del mondo non si fa attendere ed è proprio quella attesa. È un suicidio commerciale in un certo senso preconizzato nel testo di Black Boys on Mopeds: “To say what you feel is to dig your own grave”. Il tour americano procede con contestazioni, fischi, minacce ad ogni concerto. Quando si rifiuta di far suonare l'inno americano prima di un live interviene Frank Sinatra in persona promettendo di "prenderla a calci" - lei commenterà con ironia precisissima che si aspettava di trovare una testa di cavallo nel letto. Si tratta di un'altra dicotomia fin troppo facile con un altro patriarca: the voice del padrone, il cantante machista, colluso con tutti i poteri (compresi i più torbidi), l'istituzione che minaccia violenza fisica a chi si rivolta allo status quo, con l'aggravante di essere donna non domata e conforme. Lo stigma vecchio quanto la società gerarchica della pazza, della strega, dell'isterica cala come una ghigliottina sull'ormai ex popstar globale. Eppure, intervistata in merito nel 2021, alla domanda se quel gesto ha determinato la sua carriera risponde: “Yes, in a beautiful fucking way. There was no doubt about who this bitch is. There was no more mistaking this woman for a pop star. But it was not derailing; people say, ‘Oh, you fucked up your career’ but they’re talking about the career they had in mind for me. I fucked up the house in Antigua that the record company dudes wanted to buy. I fucked up their career, not mine. It meant I had to make my living playing live, and I am born for live performance”. Osservando le gallerie di foto che piovono sui siti dei quotidiani in occasione della morte vediamo, attraverso le mutazioni di aspetto fisico e look, oltre all'apparire nelle immagini più recenti di un sorriso e uno sguardo plasmati dagli eventi che bucano il cuore, la persistenza di un'artista e una donna non solo radicale, indomita, coraggiosissima (e vulnerabilissima), ma integrale, senza diaframmi o scismi tra l'immagine, i desideri e la vita. Una sperimentatrice pura che registrò un album in gaelico e subito dopo un album reggae (chissà cosa se ne direbbe oggi nell'epoca dell'applicazione burocratica del concetto di appropriazione culturale), che si fece ordinare sacerdotessa da un movimento cattolico indipendente e poi si convertì all'Islam perché non poteva smettere di cercare, in ogni direzione artistica, gnostica e spirituale.
Se dovessimo trovare l'epitaffio per l'artista enorme che è stata, lo potremmo trovare nel titolo dell'album più celebre e, probabilmente, capolavoro: I do not want what I haven't got. Sinéad O'Connor ha sempre saputo cosa voleva e cosa non voleva. Pochi artisti sono andati altrettanto in fondo nell'applicare il monito di Foucault, "mai innamorarsi del potere". Lo stesso corpo oppositivo nella sua dimensione politica di attivista ha sviluppato uno strumento, la voce, in grado di mappare ogni trasfigurazione: il modo in cui gradualmente prende la foggia invasata di una sacerdotessa guerriera in Jackie, prima traccia del primo album; il continuo rompersi e riannodarsi quando canta dei suoi tre aborti in Three Babies; il mantra per se stessi dalla title track a cappella I Do Not Want What I Haven't Got... e così via fino agli ultimi concerti in California del febbraio 2020 quando, dopo anni, era tornata a cantare Nothing Compares 2 U e la sua voce si accompagnava alla voce collettiva del pubblico in un oggetto prezioso condiviso. La vita di Sinéad O'Connor è stata, per i fatti noti, per molti versi difficilissima e tragica eppure - ci sono le sue canzoni a provarlo - nella sua necessità di costante deterritorializzazione, nel suo continuo fuggire ha attraversato territori di pura incontaminata bellezza. Per quanto l'abbiamo amata non possiamo che sperare che abbia, finalmente, trovato la pace.
Sara Velardo, cantautrice
“Ho visto Sinéad O'Connor dal vivo una volta sola, il 2 luglio del 2013 Villa Arconati - Castellazzo di Bollate (Mi). La conoscevo per poche canzoni, quelle famose, e perché una mia cara amica la considera una sua sorella platonica; un amore folle, di quelli che ti accompagna dall'adolescenza. I tempi d'oro di Sinéad erano già finiti, ma era una di quelle occasioni da non perdere, rimaneva un personaggio così carismatico e potente, uno di quelli che appena smettono di accecarti con la loro luce li vedi quasi sbiaditi nel mostrarsi per quello che sono: semplicemente degli esseri umani. Ho sentito la fatica, la fragilità, l'amore. Lo show non è stato assolutamente all'altezza di un'artista così grande, tanti errori e incertezze da parte sua e della band. Eravamo quasi tutti musicisti e tutti affamati, volevamo di più. Dopo qualche brano però ho capito, ho osservato bene le persone che suonavano con lei, uno scambio di sguardi tra lei e il chitarrista mi ha trasmesso tutta la tenerezza, la cura, l'amore che si respirava su quel palco. La sensazione era quella di un'artista che cercava di fare quello che la fa stare meglio, accompagnata da amici, non da musicisti. Un forte bisogno d’amore e condivisione che stava cercando di trasmettere anche a noi, che però non capivamo. A volte siamo solo dei carnefici che aspettano di vedere la rabbia, il personaggio, lo spettacolo, dimenticandoci che davanti a noi c'è una persona in carne e ossa che vive, respira, soffre e trema. Aspettiamo di nutrirci della sua luce, di accecarci, e rimaniamo delusi quando ci accorgiamo che è semplicemente un essere umano che sta facendo musica, in modo straordinario magari, ma è sempre un essere umano. Ci ha dato lo spettacolo più vero che potesse offrirci, mostrandosi nella sua pura imperfezione, un’artista che non si è mai nascosta e ha chiesto più volte aiuto, sentendosi usata e dimenticata, come spesso accade nel music business, e nella vita.”
Alia (Alessandro Curcio), cantautore
Thank you for healing me – Il mio tributo a Sinéad O’Connor.
Mi scrive oggi mio fratello minore: “Dispiace moltissimo anche a me perché ha fatto parte della mia vita quando ero bambino, mi porta direttamente in certi luoghi dove ci sei anche tu.”
I luoghi dove “siamo”, o siamo stati o dove siamo appartenuti. Là è dove la musica ci porta. Sebbene non abbia voluto finora scrivere nulla sulla morte di Sinéad O’Connor, mi ha fatto piacere sentire la vicinanza di amici veri e virtuali che mi hanno scritto in privato per manifestare il loro dolore. E che hanno pensato a me perché sapevano quanto Sinéad fosse importante.
Ma non è del talento di Sinéad che voglio scrivere, né della sua vita burrascosa. Mi interessa di più raccontare della fortuna che si ha nell’avere un’artista vera e intensa come guida, negli anni in cui si è più permeabili alle emozioni, quando la solitudine ti sembra un buco nero senza fine.
A quattordici anni non comprendevo ancora il valore dei testi di The Lion & the Cobra o di I Do Not What I Haven’t Got e Nothing Compares 2 U è stata forse la prima canzone che ho imparato con la chitarra. Tuttavia, nonostante il mistero, sentivo quella voce, quello sguardo, molto vicini alla mia sensibilità.
Quando nel 1992 Sinéad dichiarò di volersi ritirare dalle scene, piansi un intero pomeriggio. Sono forse uno dei pochi che reputa Am I Not Your Girl? un disco sublime. Un disco di cover quando ancora non era di moda.
L’ho sempre amata, vista live più volte, sono persino volato a Dublino nel 2010 per vederla in una delle sue performance più belle. Ho fatto le foto nel pub dove lei ha lavorato da adolescente. Ho saccheggiato le fiere del disco per accaparrarmi le rarità più introvabili.
Ma non è stato mai solo per la musica. Il fatto è che quando un poeta ti sceglie non hai scampo. La sua altezza diventa la tua altezza. E con quella vetta ti confronti e ti fai uomo.
Non mi è mai interessato conoscerla personalmente, né avere un suo autografo. Sono segnato dal primo giorno in cui ho danzato Mandinka sul tavolino del salotto imitandone i movimenti del videoclip.
Sinéad mi ha capito anche quando pubblicò Theology, mettendo in musica i versi della Bibbia. Qualche anno dopo scrissi l’album Giraffe, che, timidamente, di spiritualità intendeva parlare.
Ero connesso con Sinéad. Ed è stato bellissimo. Se sono un uomo buono, risolto e senza fantasmi lo devo anche a lei e al suo spirito indomito.
“I can’t think of an artist who’s given more than Sinéad and I can’t think of an artist who’s been punished more for telling the truth” – Anohni
Paola Colombo, cantautrice
Quando qualcuno viene a mancare ci ritroviamo spesso, un po' egoisticamente, a parlare di noi stessi, specialmente se si tratta di una celebrità con la quale per forza di cose non avevamo alcun rapporto diretto. Credo sia insito nella natura umana cercare un'elaborazione degli eventi secondo una prospettiva individuale.
Quindi spero non me ne vogliate se, a poche ore dalla morte di Sinéad O'Connor, cercherò di spiegarvi perché questa notizia mi provoca un dispiacere talmente profondo da riguardare più la sfera della mia identità personale che quella della semplice ammirazione artistica.
Da bambina divoravo fiduciosamente qualsiasi album che mio fratello, allora adolescente, portasse a casa.
Un giorno mi dice: «Senti questa». Mette su Nothing Compares 2 U, e così mi imbatto in quella voce – la voce di Sinéad.
Ricordo perfettamente la sensazione inedita, sconvolgente: "Come si fa a cantare così? Anch'io voglio cantare come lei.
Anch'io voglio cantare davanti a un pubblico".
Ora immaginate uno stacco cinematografico.
Ci sono io, cinque o sei anni dopo, su un palco.
Per la prima volta canto davanti a un pubblico, e sto cantando Nothing Compares 2 U.
Imparare quella canzone è stato per me uno dei più importanti insegnamenti di vita: per la prima volta, grazie a Sinéad, avevo capito che cantare non era solo apri la bocca e fai uscire dell'aria.
Quando Sinéad cantava potevi sentire come un plop! – il suono molliccio del cuore che si era appena strappata dal torace per sbattertelo lì sul tavolo operatorio, completamente esposto e ancora pulsante. E tu non sapevi bene cosa fartene, fra lo schifato e l'attratto, ma nel dubbio restavi lì a fissarlo.
Da qui l'illuminazione: cantare significa diventare vulnerabile. Esporti.
Pericolosissimo ovviamente, è un costante tormento, ma difficilmente nella vita troverai qualcosa che ti porti a certe profondità, sempre che raggiungerle rientri nei tuoi interessi.
E io quelle profondità, quelle verità assolute, le ho sempre disperatamente ricercate.
Ecco quindi come l'arte di Sinéad O'Connor si è innestata nel mio percorso di vita, nei miei ricordi più belli con le persone a cui voglio bene, nella mia ricerca di un'identità come essere umano, ancora più che nella mia storia – ben poco rilevante – come musicista.
Fuor di retorica: riposa in pace, Sinéad.
E grazie per il tassello del mio mosaico personale che mi hai regalato.
Una parte della trascrizione e traduzione di Andrea Spinelli di un video pubblicato da Sinéad O'Connor nel 2017:
"[...] Ho dato tanto amore nella mia vita e non riesco a capire come una persona possa essere così sola.
La malattia mentale è un po' come la droga, non gli importa chi sei. E, allo stesso modo, sai cosa è peggio? Lo stigma. Improvvisamente, tutte le persone che dovrebbero amarti e prendersi cura di te, ti trattano come una merda. E quando sei arrabbiata o ferita perché lo fanno, è come una caccia alle streghe. Ti puntano il dito addosso dicendo: "Vedi, vedi, ecco perché non vogliamo saperne". E io combatto, combatto, combatto, combatto, come tutti i milioni di persone che conosco per restare in vita ogni giorno.
Non resto in vita per me stessa. Se dipendesse da me, sarei andata via. Ho camminato su questa terra da sola per due anni. Come punizione per essere malata di mente e arrabbiata che nessuno si prendesse cura di me. In realtà, per essere suicida e arrabbiata. Tutti hanno paura di una donna arrabbiata.
Ecco cosa succede quando le persone pensano, erroneamente o meno, che tu abbia una malattia mentale. Lo usano come qualcosa per invalidare ogni cosa che pensi, fai, dici e senti. Tutto ciò che pensi, fai, dici e senti all'improvviso è completamente invalido. Sto facendo del mio meglio nel mondo, come tutti gli altri, e so di avere un buon cuore anche se sono stata un po' stronza molte volte, sai.
Una fra milioni. Una fra dannati milioni. Perché siamo soli? Cosa abbiamo fatto di sbagliato? Le persone che soffrono di malattie mentali sono le persone più vulnerabili sulla terra. Non possiamo prenderci cura di noi stessi. Capisci cosa intendo? Dovete prendervi cura di noi. Non siamo come tutti gli altri. Stiamo facendo del nostro meglio come tutti gli altri.
E ogni giorno da due dannati anni la mia intera vita ruota intorno al semplice non morire e questo non è vivere. Ogni senzatetto che incontro per strada mi racconta la stessa storia. L'unica differenza tra me e loro è che io ho un dannato appartamento.
Non voglio morire. Voglio restare viva. Voglio restare viva.
È lo stigma che sta uccidendo le persone, non le dannate malattie mentali. Sei tu e la tua famiglia. Se hai un familiare che soffre di una malattia mentale, prenditi cura di lui. Con tenerezza, amore, prenditi cura di lui, vai a trovarlo in ospedale, non lo scaricare in un dannato ospedale e poi sparire.
Il mio spirito è così grande, non morirà mai, ma il mio corpo è piccolo, e sta morendo. Nessuno può dire che non vi ho avvertito.
Vai a trovare le persone nel tuo ospedale psichiatrico locale, perché sono proprio come me. Seduti nei manicomi da soli, senza nessuno, trattati come pezzi di merda perché non stiamo morendo di cancro, invece stiamo morendo di qualcosa di emotivo e che non meritiamo di essere trattati come merda per questo.
Per favore, imparate da questo video, andate nei vostri ospedali psichiatrici locali se avete 16 anni o più, conoscete i pazienti psichiatrici locali che sono persone dal cuore bellissimo, siate buoni e teneri con loro e andateli a trovare [...]".