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I Cani Glamour: recensione e streaming
AcCANImento, poco glamour, molta realtà, impiegati, artisti ricchi e viziati, synth-pop, feste a invito, successo-insuccesso, punk, varie ed eventuali: il nuovo album dei Cani. Oltre il caso mediatico fino al 2033.
Ammettiamolo: i Cani sembravano un bluff. L’identità inizialmente mascherata, le frecciatine ad un certo ambiente “indie”, il titolo del disco di debutto (Il sorprendente album di debutto dei Cani, 2011: qui la nostra recensione, a cura di Annalisa Pruiti Ciarello) facevano ipotizzare che fossero una sorta di tranello per una certa scena e la sua tendenza ad acclamare il best new act di turno misconosciuto e rigorosamente “indiegeno”, figlio integrato dell’underground più alternativo. Niccolò Contessa, one-man-band dietro il moniker, non proveniva in effetti da quella nicchia, ma dall'electro-funk dei Tavrvs e sembrava una sorta di ariete spinto contro le vetrate delle apparenze di quel mondo.Al contempo ai Cani sembrava essere successo quel che capitò a Caparezza con Fuori dal tunnel, ben accolta alla fine proprio dai luoghi dell’industria del divertimento su cui si appuntava il suo sarcasmo: un progetto che aveva divertito e animato dibattiti con un manifesto non degli hipster, ma dei loro tic e manie ipocrite quale era Hipsteria, per ironia della sorte si è ritrovato ad essere osannato dagli stessi oggetti di tali ironici strali, forse anche perché si riconoscevano nell’ambiente delineato nei versi. Il caso mediatico, ora accompagnato anche da un buon riscontro di vendite (su iTunes l’album si è piazzato al settimo posto già solo nei pre-order, a poche ore dall’annuncio della sua imminente uscita!), infine ha rischiato ulteriormente di spostare l’attenzione dalla musica al commento delle strategie promozionali o all’analisi sociologica delle dinamiche di tale successo, laddove anche le ultime trovate, come il disco annunciato all’improvviso tramite volantinaggio alla tappa milanese degli Editors, ci sembrano comunque non furbate per spacciare il nulla, ma mosse intelligenti per aumentare la curiosità su un disco che merita l’ascolto.
Sì, perché i Cani non sono un bluff, non sono hipster (nel senso deteriore e più frequentemente attribuito oggi al termine) e questo album, a nostro modesto avviso, ha forme e contenuti da ascoltare. L’ironia del progetto di Contessa qui e lì resta anche in questo secondo lavoro e non giustifica l’acCANImento degli haters: non siamo dinnanzi a qualche artista cerebrale ed intellettualistico e/o a una band di poser snob con l’arroganza dei primi della classe, da demolire proprio perché la smetta di recitare il ruolo (che non gli compete) del gruppo più straordinario e innovativo del globo e forse sarebbe anche il caso di non prenderli così tanto sul serio, complice talora l’invidia, ma di valutare le loro canzoni per quello che sono.
Resta la capacità di fare satira di costume sui tempi odierni, dalle foto dei mici sui social network per ostentare dolcezza a Whatsapp, dai “furbi con banjo” (gli strimpellatori dell’ondata cantautorale dell’indie?) alle foto con cui pavoneggiarsi su Tumblr e alle moltitudini chiuse in casa davanti al computer, dall’esaltazione di Milano come capitale della moda, della musica e regno di public relationships, all’accozzaglia di ascolti e riferimenti culturali e letteraria di cui vantarsi, dalle feste a invito alle pagine patinate di riviste e siti con nomea di “fighi”.
Resta il rispecchiamento dell’oggi, che potrebbe essere una zavorra che porti il progetto a fondo con questi tempi (libero spazio per gli scongiuri di Contessa e dei suoi sostenitori), ma anche il pregio che rende i due dischi dei Cani ancorati al reale e non persi in qualche universalità, che potrebbe essere anche banalità, inconsistenza e vaghezza ("liocorni", "amore puro" e altre invenzioni). “Sarà dura far scrollar di dosso quest’idea che a nominare ciò che esiste non si dice nulla”, sono consapevoli i Cani in Introduzione, in cui Contessa enuncia il suo intento: “io voglio raccontare e che mi si racconti, perché anche il poco che sappiamo è meglio di niente”. Non mancano inoltre stralci di possibile confessione/riflessione, tra serio e faceto, come “temo il successo, ma non quanto l’insuccesso: forse è per questo che passo la vita a dire che non m’interessa” (FBYC, s f o r t u n a, mosaico di sapienti riferimenti e citazioni, spesso rovesciati di segno o cum variatione, dei versi e delle atmosfere dell’omonimo album del 2009 dei Fine Before You Came), oppure “non avrò paura se non sarò bravo come Thurston Moore” (Lexotan). O ancora l’amaro e ridimensionante: “ero un po’ troppo comodo in quanto astro nascente, astro nascente di quattro poveri stronzi” (Non c’è niete di twee).
Insomma i Cani ovviamente si fanno delle domande sulla loro presunta fortuna (e/o si prendono gioco di noi che ci interroghiamo in merito?!), ma soprattutto fin da queste parole si può cogliere come potrebbero superare, come forse stanno già facendo, il rischio di essere solo un fenomeno transitorio, cioè continuando ad approfondire quell’essenza più pensosa e malinconica che già si individuava ad esempio nella critica alle apparenze di Post punk o nelle sfumature di delusione che adombravano Il pranzo di Santo Stefano: dietro le sembianze spesso solari della musica, si narra il rischio dell’insoddisfazione e dell’ansia, a cui si oppone una “stupida, improbabile” e “niente affatto fotogenica felicità” (Lexotan), la nostalgia per il “groppo in gola” e l’espressione da “vero duro con problemi seri” dell’adolescenza (Corso Trieste), insicurezze, fragilità e senso di impotenza (“da quando ho un tour e un lavoro e la gente che amo sta male, io da solo non ci riesco più”, Come Vera Nabokov). E si raccontano i lavori impiegatizi “proprio senza glamour”, che ci si ritrova a fare perché “con le velleità [autocitazione!] non ci si vive” (Storia di un impiegato), di contro invece i luoghi comuni da smentire o confermare sull’artista-tipo, rimpianto come “profeta”, “ricco e viziato”, alcolizzato “coi suoi amici barboni” (Storia di un artista), e poi il sentimentalismo falso e l’arroganza di affidare la realizzazione del desideri alle stelle cadenti, “meteoriti ignari”, indifferenti a “progetti”, “amori” e “fallimenti” di chi vi si rivolge (San Lorenzo). In conclusione, nei testi dell’album c’è poco glamour e molta realtà.
Musicalmente il disco è appare più “suonato”, mosso ed articolato del precedente, anche per evitare di autoconfinare i Cani in qualche scena: nelle undici tracce c’è spesso ancora il synth-pop, che però ora ricorda più spesso di un tempo Gazzè o gli ultimi Amor Fou, ma sa anche gonfiarsi teso, quasi strizzando l’occhio al baroque pop, e/o sa sfoggiare suoni quasi cantautorali (v. in entrambi i casi Introduzione e il suo riff di piano). L’album si attesta a volte su sonorità spensierate e melodie oscillanti tra punk (soprattutto), garage e sunshine pop (molto vagamente), a volte su un sound electro anni ’80 (v. l’agrodolce Corso Trieste con i Gazebo Penguins, che poi sfocia nel brano più “schitarrato” del disco e in una melodia quasi ossessiva).
Le ritmiche più punk (spesso più pop- che post-) si ritrovano in FBYC – anche per ovvi motivi di omaggio – e nel suo catalogo di paure, con una punta però forse di sarcasmo sull’autocommiserazione nell’accenno al mood di Vixi, e in Lexotan, imperniata soprattutto sul basso, nonché sulla batteria di Simone Ciarocchi, già batterista live del gruppo e componente dei Masoko.
Ci sono momenti più ballabili, come la stessa “addictive” Non c’è niente di twee, singolo perfetto, così come ci sono brani spiccatamente pop e orecchiabili come Storia di un artista e San Lorenzo, con ritmo quasi da filastrocca. Non mancano neanche una strumentale, l’inquieta, sinistra Roma Sud con Chris X, che fa il paio con Roma Nord del primo disco e su cui pure si innesta una linea di piano malinconica, e una ghost-track, contenuta solo nel cd in uscita domani, 29 ottobre, la divertente 2033. Si tratta di una canzone ironica, la più cantata e classica del disco, inaspettatamente in stile rigorosamente cantautorale (o meglio una più ipotizzabile parodia di cantautori come il sopravvalutato Mannarino, come fa pensare la spia dell’uso del romanesco?), un pezzo voce e piano su possibili scenari futuri, con l’amico scomparso e la sorella che se ne sta vendendo i dischi, l’altro amico che fa ancora il producer, ma campa grazie all’affitto della casa di una zia, o l’altra amica che molla il deejay e sposa un dottore. Epica epigrafe soddisfatta, per seppellire qualunque critica del 2013: “Te dovessi dì, io non me pento: c’avemo avuto er nostro bel momento”.
Un buon disco, gradevole e riflessivo più di quello che (forse) sentirete dire in giro. Ascoltatelo e decidete se vi piace o meno. Possibilmente con leggerezza e senza farne un affare di Stato, uno scandalo o l'argomento su cui tutti i musicisti del mondo debbano sentire l'insopprimibile imperativo categorico di pronunciare la loro aspra sentenza (c'è tanto altro da ascoltare se non gradite, no?).
Possibile domanda/appunto: “Se non è un affare di Stato, perché fare uno special sui Cani, che in fondo neanche ne hanno bisogno e non riposteranno neanche il link, perché mica siete Vice?”
Possibile riposta: “In un pomeriggio analogico ho scritto questi appunti e, ricopiandoli, mi sono resa conto che erano chilometrici. Se non arriverà nessuno fino in fondo, neanche i Cani, beh, pazienza. Al massimo il tutto rifluirà in un instant-book dal titolo Non sposerò Nicola Contessa.”
E' tutto: buon ascolto!
I Cani
Glamour
(42 Records)
Tracklist:
1. Introduzione
2. Come Vera Nabokov
3. Corso Trieste (feat. Gazebo Penguins)
4. Non c'è niente di twee
5. Storia di un impiegato
6. Roma Sud/Theme from Koh Samui (feat. Cris X)
7. Storia di un artista
8. FBYC (S f o r t u n a)
9. San Lorenzo
10. Lexotan
11. 2033 (ghost track non presente nella versione in digitale)
Prodotto da I Cani e da Enrico Fontanelli (Offlaga Disco Pax).
Mixato da Giacomo Fiorenza e masterizzato da Andrea Suriani all'Alpha Dept. Studio di Bologna.
La terza foto è di Federico Tribbioli.
Si ringrazia Emiliano Colasanti (42 Records).