Pink Floyd

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Pink Floyd The Dark Side of the Moon compie 50 anni - Riflessioni, ricordi, commenti su un disco senza eta'

27/02/2023 di Autori vari

#Pink Floyd#Rock Internazionale#Rock #The Dark Side of the Moon

Il disco piu' sopravvalutato della storia del rock, o un capolavoro totale? Il primo concept album, seminale per tutti gli altri, o una grande truffa? Il libro maestro del prog, o una congerie di sperimentazioni senza capo ne' coda? Oppure un bel disco, ma senza nessuno spessore? The Dark Side of the Moon compie cinquant ' anni. I suoi artefici sono divisi, litigiosi, hanno cali creativi oppure costruiscono spettacoli sempre piu' fantasmagorici. Ma il suono resta. E le nostre voci, che hanno eta' diverse, dai sedicenni ai sessantenni, lo vivono come sanno, come sentono. Ve le proponiamo qui ...
 

  • Riccardo Ali, 23 anni
The Dark Side of the Moon è tutto ciò che un capolavoro senza tempo dovrebbe essere. È un viaggio davvero al confine tra dimensione intima e sociale e fa riflettere criticamente su tematiche scomode con grande maturità e senza banalità. Ad esempio, brani come Time riescono, in modo così leggero, ma puntuale, a sintetizzare quella paradossale commistione di FOMO, fear of missing out, di noia e di voglia che tutti, più o meno intensamente, avvertiamo ogni tanto. Nella mia generazione, almeno. O Money, capace di raccontare quella voglia di riscatto e affermazione, e al contempo di impossibile soddisfazione e vuoto. Il tutto narrato con sonorità suggestive e psichedeliche (Any Colour You Like è certamente tra i miei brani preferiti). In fin dei conti, abbiamo sempre bisogno di qualcuno capace di comprendere, e normalizzare, la nostra interiorità, “damaged”, proprio perché umana.

  • Davide Bernasconi (Van De Sfroos), 57 anni
Il vinile oscuro venne infilato nella borsa di plastica blu e bianca del negozio di dischi in via Garibaldi a Como, un tardo pomeriggio di dicembre, buio, freddo e anche umido per via di una pioggia fine e ipnotica. Camminavo proteggendo il disco, come fosse una reliquia sconosciuta, un mistero ancora da decodificare. Era il 1980 e io ero reduce da un anno intero di ascolto spasmodico e devozionale di The Wall, che era uscito alla fine del 1979. Mi aveva invaso letteralmente, partendo dal tormentone radiofonico di Another Brick on the Wall part. 2, il quale mi aveva spinto a comprare la doppia cassetta dell’album dei Pink Floyd, in un negozio di elettrodomestici di Menaggio, che teneva anche qualche vinile in una scatola di legno e svariati nastri per gli automobilisti, soprattutto. Ne diventai dipendente, ma era ancora il periodo in cui non sapevi se il nome del gruppo significasse Fluido Rosa o Fenicottero Rosa, come dicevano alcune leggende di strada. Avevo bisogno di ascoltare altro di questo gruppo e, durante le vacanze di Natale di quel periodo, presi le mance dei parenti, scesi in città e mi feci consigliare dai commessi, i quali, con gli occhi spalancati come uova in cereghino, mi misero in mano la piramide, sconvolti per il fatto che ancora non l’avessi, spiegandomi che era un monumento della musica rock, del 1973…non potevo continuare il mio percorso di ascoltatore con addosso una simile vergogna.

Così The Dark Side of the Moon salì sulla corriera Como Colico delle ore 18 e qualche minuto, e si accomodò insieme a me su uno dei sedili in fondo. La cover era severa, occulta e avara di indicazioni. Niente titolo, niente nome del gruppo, solo un grande nero attraversato da arcobaleni tesi e inquietanti. Lo aprii e cominciai ad osservarlo. All’interno una sorta di cardiogramma attraversava la doppia pagina e separava le notizie di registrazione dai testi delle canzoni, scritti in bianco, lapidari e non particolarmente lunghi. Notai che nella tasca oltre al disco c’erano dei posters e degli adesivi, il tutto sempre più lunare e alieno, anche se comparivano piramidi notturne e altre suggestioni terrestri.

Alle 19 e 30 circa, il vinile nel suo vestito sacro entrava nella mia stanza e, sotto le luci blu e rosse delle mie lampade, veniva spogliato e posato sull’altare dell’ascolto, davanti a un lago d’inchiostro e alla luna di dicembre che sembrava stata pagata, come un sicario. Mi resi conto subito che non mi trovavo di fronte a un ascolto ordinario di una lista di brani, ma che ero salito a bordo di qualcosa di sconosciuto, per un viaggio nel lato oscuro non solo della luna, ma anche mio.

Battiti cardiaci, risate sinistre, orologi impazziti, gemiti, urla da manicomio e morbide ballate quasi sussurrate, chitarre scorticanti e un basso cosmico, tastiere che diventavano portatrici di suoni oltre la sfera dell’ascolto e scendevano dritte nel subconscio, o comunque nei fondali di quelle acque che ciascuno di noi ha. La ritmica sempre a tenerti a bordo, mentre tutto il resto si snodava tra le pareti infinite di ciò che puoi immaginare nel cosmo e dentro la tua stessa infinita galassia interiore. Alcune latitudini del primo ascolto mi portavano dritto alle ombre, all’ansia e alla paura di qualcosa di non definito, ma il viaggio non poteva essere interrotto, perché diventava man mano sempre più importante. Scoprii, con quel disco, il coraggio del vero ascolto, la strada del suono che ti fa naufragare, per aiutarti a diventare marinaio.

Non potevo sapere che quella copia dell’album, dopo infiniti ascolti, avrebbe preso una strada fatale sulle rotaie del destino, finendo a Verona da mio cugino, il quale me lo restituí dopo qualche anno, con due firme fatte con il pennarello bianco su nero. Le firme di Nick Mason e di David Gilmour, che erano stati ospiti nel prestigioso Hotel Due Torri, dove all’epoca mio zio era direttore.

Ora lo guardo, qui, appoggiato sulla solita mensola, e gli faccio tanti auguri di buon compleanno, una festa alla quale siamo presenti in tantissimi.




(La scrivania di Davide Bernasconi)

  • Laura Bianchi, 61 anni 
1974.

Una ragazzina, e un disco tutto nero con un prisma in mezzo. Sul piatto dello stereo, un battito di cuore, che si incrocia col mio, e, dentro, un cardiogramma con i testi. Io, che, più che capire, percepisco. Assorbo una visione del mondo futuribile, eppure presente, che si fa rumore, bisbiglio, voce, note, fra elettronica e acustica, fra materia e pensiero. La corsa in loop di On the Run, gli orologi di Time, il vagito - urlo di The Great Gig in the Sky, il tintinnio di Money, il suo trascolorare nel volo dolente di Us and Them, e concludere la corsa con l'inno totale di Eclipse. Percepire senza capire. Ma ci sarà tempo anche per questo. Per capire il senso.

1984.

Adesso so l'inglese, sono a Londra, ho un walkman e delle cuffie, e ci sogno dentro. A Londra c'è un ragazzo di Bilbao, che suona Wish You Were Here. Mi racconta la storia di Syd Barrett, in una notte passata ad ascoltare quel disco nero, ora diventato una cassetta, reverse, reverse, reverse…e ne capisco il senso, in quella metropoli che sta bruciando i suoi lustrini, fra la City e Brixton, fra droga e affari facili, fra Brain Damage e Any Colour You Like

20 maggio 1989.

Monza. Il concerto totale. Una ragazza vicino a me, su Time, davanti alle proiezioni degli orologi, in un grande cerchio in cui tutto si tiene e da cui tutto fugge, esclama “Cazzo ragazzi, questo sì, che è acido!”...io invece rileggo Money, sospesa tra funk, jazz, reggae, e aggiungo un altro pezzo al mosaico. 

1990.

Finalmente possiedo un lettore CD. Alta fedeltà del suono, dicono. Sentirai in modo diverso i suoni del disco in vinile, dicono. E mi ritrovo a chiedermi: quale CD comprerò per primo? Classica, o altro? Risolvo in modo equilibrato: Beethoven, e il disco nero col prisma. Metto le cuffie, e il viaggio ricomincia. Ma dentro ci avverto, finalmente, Alan Parsons, che mi sussurra “senti, quanto di mio ci ho messo?...”

17 aprile 2018.

C'è mia figlia, seduta vicino a me, al forum di Assago. Il mio regalo per i suoi diciotto anni è la platea del concerto di Roger Waters. Ho scoperto  da poco che ama i Pink Floyd, passione coltivata a mia insaputa; nel secondo anello ci sono i suoi amici, coetanei. E non c'è stupore, ma tremore, nel sentirla emozionarsi quando Waters inizia il concerto con Speak to Me / Breathe, investendo lei di presente, e me di passato, lei di attese, me di ricordi.

1992 - 2023.

Anni nella stessa scuola, e mai un anno senza vedere, fra corridoi e aule, una maglietta nera, un astuccio, un adesivo sul diario, con quel prisma. Allora mi avvicino, inizio a chiedere a quei ragazzi, apparentemente così diversi da me. E scopro che i decenni passano, ma che restano sempre la stessa inquietudine nel cuore, lo stesso vibrare nella voce, e, nelle idee, la stessa visione del mondo. 

Perché quel cuore, che ha iniziato a battere, non smetterà mai. Del resto, The time is gone, the song is over, Thought I’d something more to say…

  • Davide Bonamici, 27 anni
In The Dark Side of the Moon i Pink Floyd costruiscono un concept album attorno alla vita dell’uomo, dalla nascita sino alla morte, ma tenendo conto di alcuni fattori che incidono sulla vita stessa (come Time e Money). I fattori legati alla vita umana sono concentrati tra l’inizio e la fine del disco, ma anche a metà di esso: Speak to Me e Breathe rimandano alla nascita dell’individuo; Brain Damage ed Eclipse parlano espressamente della morte; infine, c’è una canzone, situata a metà disco, che parla di entrambi gli argomenti, ovvero The Great Gig in the Sky. In cui le urla rimandano sia all’uscita di un bambino dal ventre materno, ma anche agli istanti finali di una vita e alla paura di morire.

La band inglese non dimentica, nel contorno costruito attorno al concept, un elemento fondamentale della storia dell’uomo: la guerra. La situazione mondiale è in perenne stallo, si sta concludendo la guerra in Vietnam e lo scenario politico internazionale vede al potere, tra le figure più importanti, un controverso presidente americano, Richard Nixon, che nel 1973 dà l’ok per far mettere al potere Pinochet in Cile e spodestare Salvador Allende; e un dittatore sanguinario nell’URSS, Leonid Breznev. Così nasce, dalla penna di Roger Waters e dai ricordi del padre, morto dopo lo sbarco alleato di Anzio nel 1944, una canzone che condanna tutte le guerre e chi le ordina per interessi personali: Us and Them. Nella canzone viene riportata la condizione di chi è costretto a combattere, riprendendo tutte le parti in gioco; infatti, viene svolta una comparazione tra due soldati rivali all’interno di una guerra, dove obbediscono solamente all’urlo dei generali e si sparano contro, senza che si siano odiati per davvero. Si è privati di tutto, dell’umanità in primis, ma anche di qualsiasi diritto personale e ogni libertà di scegliere per sé stessi. 

L’ultima strofa rimanda poi alla condizione di chi soffre di stress post-traumatico, perché dagli USA iniziarono ad arrivare le prime notizie di molti reduci del Vietnam che vivevano nella miseria. Un uomo anziano, ridotto a cercare spiccioli per mangiare e bere, muore nell’indifferenza del mondo, ponendo l’accento sulle condizioni di molti reduci e sopravvissuti alle varie guerre che hanno scosso il globo, ovvero morire nella solitudine più totale e dimenticati da chiunque.

Us and Them, all’interno di un concept, ci ricorda quanto le guerre siano mosse dalla politica e dai generali, mai dagli uomini comuni che sono obbligati a parteciparvi e spesso a morire in esse. La canzone dà uno spaccato sulla fragilità della vita dell’uomo nelle trincee, ma anche una volta che egli è sopravvissuto e ritornato nel proprio Paese natale, criticando ogni concetto che si lega alla parola guerra. 



  • Pj Cantù,  62 anni
Time is gone

Il 3 novembre del 1975 è una giornata piovosa. 

Ho quindici anni e sono in montagna con la mia famiglia, mentre vorrei essere con gli amici a giocare a pallone all’oratorio. La televisione parla della morte violenta di Pasolini e fuori piove.

Sapendo già di annoiarmi, per questa breve vacanza mi sono portato un po’ di cassette che un compagno di classe mi registra. Lui ha un fratello più grande che ha i dischi. Grazie a lui, in quei mesi sto scoprendo un sacco di nuova musica. 

In una di queste cassette, una Basf C60, c’è Foxtrot dei Genesis su un lato; sull’altro The Dark Side of the Moon. Entrambi sono troncati a un certo punto: l’inizio di Supper’s Ready e la fine di Us and Them.

È una vera folgorazione. 

C’è talmente tanta roba in questo album che mi prende un vero trip: per un po’ ascolto solo i Pink Floyd, abbandonando i suoni della West Coast. So già che, quando avrò il giradischi, comprerò l’album e finalmente potrò ascoltare anche le canzoni rimaste fuori dalla cassetta, da Any Colour a Eclipse.

Qualche mese dopo, il professore di fisica porta in classe il disco per spiegarci che la copertina è sbagliata. Nella rifrazione dei colori non c’è il viola. Inoltre, lo spettro convergente del prisma sul retro è fisicamente impossibile.

Nel corso degli anni, come tutti, tornerò spesso ad ascoltare questo disco. Imparerò a conoscere Storm Thorgerson e gli Hipgnosis; metterò in loop Gig per sprofondare nei saliscendi della voce di Clare Torry; per dovere professionale studierò tutto quello che c’è da sapere sui Pink Floyd di quel periodo. Scoprirò che, in realtà, per me il gruppo è soprattutto quello con Syd Barrett, anche se Roger Waters mi tiene aggrappato fino a Final Cut.  

Di quel primo impatto mi restano impresse le voci parlate, la risata che apre l’ingresso di Breathe, gli effetti sonori di Waters, il ticchettio che precede le sveglie scampanellanti di Time.

Il tempo, appunto, che passa inesorabilmente: “Sei giovane e la vita è lunga e c’è tempo da ammazzare oggi E poi un giorno scopri che ti sei lasciato dietro dieci anni”. 

Ne sono passati cinquanta dalla pubblicazione dell’album. E Roger Waters si appresta a cominciare un nuovo tour...

  • Carlo Carraro, 45 anni
I Pink Floyd giunsero al loro appuntamento con la storia nel 1973, in una condizione di assoluto stato di grazia.

Alla ricerca della propria identità, dopo la perdita della scintilla primordiale di Barrett, la band intraprese i sentieri della sperimentazione avanguardistica nelle direzioni più disparate, tra musica contemporanea, improvvisazioni, metodi compositivi fuori dagli schemi e il continuo miglioramento della strumentazione utilizzata.

Gli ingranaggi cominciarono a sincronizzarsi a partire dal 1970, e, nell’arco di un paio di anni, il gruppo raggiunse il pieno del proprio flow creativo.

Arrivarono ad essere così immersi in questa condizione, ma talmente focalizzati e determinati, da riuscire  a incastonare, nel bel mezzo del processo produttivo di Dark Side, la realizzazione di un ulteriore album in una parentesi di sole due settimane, quell’Obscured by Clouds, che, pur essendo solo una colonna sonora, avrebbe incluso brani degni di essere riproposti dal vivo ancora oggi.

Come una stella nel proprio ciclo di vita, i Pink Floyd raggiunsero il culmine della loro “sequenza principale”, con la pubblicazione dell’album e il tour che ne seguì.

E proprio come una stella, nella quale a un certo punto i legami chimici fra gli elementi che bruciano cominciano a cambiare, uscirono da quella fase in una condizione di pressione estrema, che li portò via via a mutare colore, lucentezza, dimensioni, aspetto, ritrovandosi in un nuovo stato, caratterizzato da un equilibrio ben più instabile.

 Ma questa parte della storia sta dall’altro lato della Luna.

And everything under the sun is in tune, but the sun is eclipsed by the moon”: dopotutto, il sole altro non è se non una stella.

  • Marco Cavalieri, 56 anni 
Uno dei miei primi tre dischi di Musica “seria”. A 11 anni, grazie al fratello maggiore del mio più caro amico, passai in un sol giorno dalle sigle TV alla Musica dei grandi. Entrai da Ricordi e ne uscii con tre LP: Made in Japan, Il burattino senza fili e appunto i Pink.

Tutti e tre i dischi mi cambiarono profondamente in pochi giorni. Ma The Dark mi ipnotizzò fin dalla copertina. Solo 38 anni dopo, grazie alla serie Vinyl, ho capito: quando la discografica dice a Ritchie FinestraOgni ragazzo è ipnotizzato da quel cazzo di triangolo sospeso e tu continui a mettere le facce in copertina”.

        •  Valerio Corbetta, 57 anni.

La copertina la conoscono tutti. Ma proprio tutti tutti. Quel fascio di luce bianca che incontra e attraversa un prisma per uscirne aprendosi a ventaglio nei colori dell’arcobaleno. In realtà mancherebbe l’indaco: ma, come ogni lavoro artistico, l’imperfezione (specie se voluta, come in questo caso) rende unico un capolavoro. Null’altro attorno, solo il nero. Nessun titolo, nemmeno il nome della band. “The Dark Side of the Moon” compie 50 anni e lo si festeggia, perché ha cambiato la storia della musica nel passaggio dalla psichedelia a un suono più morbido, affettato, riconoscibile da lì e per sempre sotto il marchio Pink Floyd. Che in quel disco sublimarono la loro arte creativa in un lavoro a otto mani che non si sarebbe ritrovato in futuro, come non era stato nel passato. Syd Barrett se n’era andato e Gilmour era arrivato a smussarne il lavoro e incastrarsi perfettamente con quello di Waters, Wright e Mason. In assoluto continuo a preferirgli il monumentale “The Wall” per motivi anche extra musicali, e forse pure il più compatto “Wish You Were Here” e il caleidoscopico “Ummagumma”. Ma è innegabile che, perso Syd e trovato Gilmour, (ri)parti tutto da qui e tutto venne rivisto e rivalutato.

Dell’album mi ha sempre affascinato la mancanza di stacco tra un brano e l’altro e la fluidità (se mai “Floyd” potesse essere declinato sfruttandone l’onomatopea, avvenne in quell’occasione) del suono, con gli inserti sperimentali di oggetti e rumori già sentiti negli album precedenti ma qui sublimati nella perfezione di “Speak to me”, “Time” e “Money”. Anche se il vero capolavoro per il ragazzino di allora, con le cuffie calate sulla testa nel buio della cameretta, vale ancora per il cinquantasettenne di oggi col CD nel lettore: ed è in una voce esterna ai quattro musicisti, quella di Clare Torry che attraversa “The Great Gig in the Sky” come una scarica elettrica che, quando incontra il mio padiglione auricolare, si comporta come il raggio di luce della copertina, esplodendo in uno spettro infinito di suoni.

 

  • Gianluca Crugnola, 47 anni
Moon

I Pink Floyd materializzano, nel concept-album più filosofico e universale di sempre, la ricerca del lato oscuro della luna, un viaggio tra sperimentazioni, morte e alienazioni nato dal genio illuminato di Roger Waters e concretizzato in studio con il resto della band, coadiuvata attivamente dall’ingegnoso tecnico del suono Alan Parsons. The Dark Side of the Moon va letto anche nei numeri, e che numeri: un successo pazzesco e immediato, uscito dalle sessioni registrate agli Abbey Road Studios e immediatamente sbarcato in classifica di vendite, restandoci esattamente per 15 anni consecutivi, dal 1973 al 1988, una pausa e il ritorno nel 2014, quasi 50 milioni di copie ad oggi. Un culto, un lavoro che allude alla follia, al consumismo, un trasporto alla scoperta della vera natura della psiche umana. L’ascoltatore vaga nel progressivo intreccio di suoni e dolori, che attraversano l’opera, lasciando una sensazione appagante.

There is no dark side in the moon really.

Matter of fact it’s all dark.

  • Alfonso Fanizza, 43 anni
Quando, il primo marzo 1973, i Pink Floyd pubblicavano il loro quinto album, nessuno mai avrebbe immaginato che quel disco avrebbe portato la band inglese ai vertici della popolarità mondiale. Un disco che ha fatto la storia come pochi, battendo tutti i record del rock, come rimanere per ben 15 anni nelle classifiche di Billboard.

Un capolavoro assoluto senza tempo sull’alienazione e la schizofrenia della società contemporanea che ancora oggi suona attuale, la cui origine ha dato vita a una delle leggende più interessanti: il disco sembra essere stato pensato per una completa sovrapposizione al film Il mago di Oz. Un misterioso legame che deriva da una particolare sincronia tra le due opere, dal punto di vista prettamente strumentale e semantico.

Una teoria che, nonostante non sia stata mai confermata, ha contribuito a consacrare l’opera tra i grandi capolavori della storia musicale.

  • Giada Lottini,  44 anni

All'uscita di The Dark Side of the Moon mio padre aveva 17 anni e leggeva "Ciao 2001", dove viviamo c’erano due negozi di dischi (ora, tristemente, nessuno) e andò a comprarlo subito. Nel 1973 un disco dei Pink Floyd costituiva qualcosa di grosso: c’era l’imbarazzo della scelta a livello di musica sopraffina, ma nessuno suonava come loro. Sappiamo tutti che questo disco, amato o odiato che sia, ha avuto un impatto tale da essere ancora in classifica dopo 50 anni e presentarsi puntualmente in riedizioni che ancora vendono parecchie copie, non solo in ambito collezionistico. Sappiamo anche che a livello musicale fa da ponte tra Meddle e Wish You Were Here, con durata minore dei pezzi e testi più concreti, e sappiamo che è un concept album su tutto ciò che la logica e la razionalità non possono controllare. La parte oscura del cervello, il subconscio, l’uomo che, da quando nasce a quando muore, si confronta con ciò che non può controllare, sono protagonisti assieme ai battiti cardiaci a inizio e fine album. Torniamo al 1973: l’ascolto di un disco era un rituale collettivo, amici riuniti in una stanza, vinile che gira, opinioni sparse, discussioni, momenti di aggregazione. I miei genitori ancora non si conoscevano, mia madre sapeva pochissimo dei Pink Floyd, ma mi racconta che alla Rai avevano trasmesso il live a Pompei e mio nonno ne era rimasto conquistato, potere del genio musicale.

Io sono arrivata 5 anni e 8 mesi dopo l’uscita di questo disco e, come si può intuire, ci sono cresciuta assieme. Da bambina, gli effetti di Alan Parsons in Time, il rumore delle sveglie in particolare, che usciva a volume tuono dalle casse, mi terrorizzavano e avevo imparato da subito che la copertina nera con prisma arcobaleno equivaleva a una paura ancestrale, quindi mi preparavo col batticuore, ma non scappavo e rimanevo semplicemente turbata e affascinata, come l'uomo romantico al confronto del sublime. Mi viene da pensare che l’innocenza di un bambino che rimane intimorito da voci e suoni sia il sentimento adatto, quello che idealmente Waters e compagni volevano fosse catturato dall’ascoltatore a confronto con la perdita del controllo, che fosse sul tempo, sul denaro, che fosse morte o pazzia.

The Dark Side of the Moon non è il mio disco preferito dei Pink Floyd, ma sta al terzo posto. Ho imparato ad apprezzarlo veramente e a coglierne i significati concreti molto dopo, verso i 20 anni, nonostante a monte ci fosse quel sentore infantile, che già ne aveva colto il messaggio. Estrarre tre tracce, idealmente, da un concept del genere non è facile, ma, oltre alla già citata Time, indicherei come fondamentali anche The Great Gig in the Sky per due motivi: il terrore della morte che ne è il tema e la voce di Clare Torry. In ultimo non posso non citare Eclipse, che riassume il senso di tutta l'opera.

Questo disco, che oggi compie il suo mezzo secolo, ha scandito primavere, preparazioni di esami, storie d’amore, malumori e tutto quello che potrei chiamare la mia vita da prima ancora che nascessi, e rappresenta perfettamente il ciclo di nascita e morte delle cose, dominato, nell'uomo, da frequenti incertezze e timori. Mi è piaciuto, scrivendo questo pezzo, poter raccontare anche di come un disco possa unire generazionalmente due individui con esperienze diverse (anche più di due, in verità), riconoscendo a questo aspetto una delle funzioni principali e indispensabili, proprie dell'arte in tutte le sue forme.

  • Giovanna Mentasti, 22 anni
 
Non ricordo quando è stata la prima volta che ho ascoltato questo album, so solo che un giorno è apparso nella mia vita. Probabilmente è successo quando non ero ancora nata, o quando ero piccola, e mia madre puntava la radio contro la sua pancia. Però ricordo che a dodici anni, mentre impazzava la moda degli One Direction, ascoltavo religiosamente The Dark Side of the Moon. E ricordo distintamente, qualche anno più tardi, le notti estive in cui il CD girava nello stereo e, con gli occhi chiusi, lasciavo che la mia mente vagasse per quei paesaggi musicali.

Ricordo la meraviglia nel sentire come le transizioni fra i vari pezzi andassero a formare una sinfonia perfetta, un flusso di brani intrecciati fra loro, che però non perdono mai la loro identità. Ancora oggi so canticchiare perfettamente, anche se con voce stonata, ogni nota di ogni brano, compresi gli acuti di The Greatest Gig in the Sky e gli assoli unici di Breathe, i bassi di Money e gli orologi di Time, e le caratteristiche “notine”, disseminate in ogni pezzo. Pochi altri dischi sono stati in grado di lasciare un segno simile, nella storia, nelle persone; e in me.

  • Paolo Ronchetti, 60 anni
Nel 1977, a quindici anni, e in prima superiore, conoscevo bene Wish You Were Here (1975, grazie alle cassette che i “marocchini” vendevano in ogni bancarella, spiaggia, paese o frazione montana d’Italia. A Pezzolo di Val di Scalve, nella provincia bergamasca più profonda (45 abitanti in inverno), ascoltavo e cercavo di suonare malamente questa cosa che mi sembrava attraversare il tempo e lo spazio. A Milano mi chiesero di suonare il basso nella mia prima band scolastica: Europa di Santana, Time e Money dei Pink Floyd da The Dark Side of the Moon i brani scelti. Neanche capii la struttura dei brani che non conoscevo ancora e non avevo su nessuna cassetta. Tutto arrivò troppo tardi, comprese delle assurde notazioni in inglese (per me il mondo musicale era, a malapena, ancora fatto da Do Re Mi… e l’anglofono A B C D E F G era linguaggio marziano). Fu un fallimento, anche se Money (con il suo tempo in 7/4) non riuscirono neanche loro a portarla a termine!

Nel 1979, ancora in piena epoca Punk (in Italia eravamo in ritardo, come cultura di massa, di almeno due anni sul resto del mondo; anche se leggevi "Rockerilla" e frequentavi New Kary e avevi una manciata di dischi punk sin dal 77), ascoltavo ben altro, ma feci mia una copia di Dark Side e lo trovai inutilmente bizzarro, senza poesia e immobile. Meglio Wish You Were Here e, soprattutto, meglio Relics, che fu regalo del mio primo grande amore e che imparai a suonare dall’inizio alla fine nell’arco di meno di un mese di vacanza. Per apprezzare Dark Side ci vollero i testi scritti pubblicati dall’Arcana nel 1981, e un pizzico di maturità in più.

Prima estate dopo due anni di pandemia. Nel mio servizio arriva un ragazzo intelligente e dolcissimo, completamente isolato dal mondo. Parla con le piante e ascolta Pink Floyd e reggae. Chi mi conosce sa che questo è il mio pane e azzecco due parole nel colloquio con lui. Ci si vedrà in settimana ad ascoltare (e vedere) l’Immersion Edition di Dark Side con testo e traduzione di quel volume dell’Arcana del 1981: il ragazzo accenna un sorriso dolce; l’esplorazione durerà mesi. Tra Dark Side, Wish You, The Wall (tutte con lettura ed esegesi dei testi), alternate a vagonate di musica giamaicana. Dark Side e il suo Brain Damage rimangono a interrogarci per primi. Ci tiriamo fuori le parole di bocca a fatica, guardandoci e non guardandoci negli occhi. C’è un mondo da esplorare, da riconoscere, ricostruire, riportare ad altro. C’è la poesia dei testi e un dolore che conosco da anni di riflesso, sino a farlo diventare, in piccole dosi, anche mio. C’è la paura di non riuscire più a uscire da quell’ombra scura. C’è il ricordo di quella ragazza dolce, che amavo a 17 anni, che mi portò per anni lo stesso dolore di quel ragazzo ora davanti a me, e che oggi, dopo un anno, suona con noi la chitarra imparando Time

Rimane Dark Side e il suo interrogare, da 50 anni, sulla nostra faccia nascosta. Sui fantasmi e le illusioni. Un tentativo di dare un nome alle cose; una possibilità di usare l’arte per farci delle domande e ipotizzare risposte, esplorando la nostra Dark Side of the Moon personale.


 

  • Alessandro Ronchi, 40 anni  -                       Dark Side of the Moon come segno dei tempi.

    1973, pieno riflusso successivo alle sperimentazioni rivoluzionarie del Sessantotto. Esce un album che replica perfettamente la direttrice del mondo all'interno della parabola Pink Floyd - e infatti sarà tra i massimi bestseller di ogni tempo. Chiusi definitivamente i conti con la prima fase bateau ivre a guida Syd Barrett, non più viaggi con l'intenzione di deragliare tra gli spazi cosmici, non più Astronomy Domine e Interstellar Overdrive, bensì una mappatura simbolica di un oggetto celeste statico e familiare, la Luna, benché dal suo lato nascosto e inquietante. La deviazione psichica perde connotati mefistofelici per prendere quelli più familiari e quotidiani della depressione e dell'alienazione capitalista. Spariscono le distorsioni, oppure vengono riordinate attraverso i canoni musique concrète, la struttura mette ordine nel lato selvaggio. Dopo lo sregolamento lisergico di tutti i sensi e dopo anni dans la rue, si tratta di tornare a casa (home, home again).

  • Linda V., 16 anni -                                                                                                                                   Time tratta del trascorrere del tempo. Il brano ritrae il malessere di Waters dopo aver realizzato di aver perso del tempo prezioso nel corso della sua vita, paragonandola a un sole che tramonta (“sinking sun”). Il testo è ricchissimo di altre metafore. Inoltre gli effetti sonori, come il ticchettio di orologi, rendono l’ascolto nettamente più realistico ed emozionante, anche grazie all’esperto tecnico del suono Alan Parson.

    The Dark Side of the Moon parla di un percorso psicofisico: l’ordine dei brani è scelto in modo che con Time si entri nel vivo di esso. Consiglio il pezzo e l’album a coloro che desiderano avvicinarsi al genere del progressive / symphonic rock, partendo dai grandi classici.

    (Articolo presente in un giornale studentesco).

Speciale su Roger Waters, The Dark Side of the Moon Redux (SGB Cooking Vinyl, 2023)