CANNES E DINTORNI 2012

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CANNES E DINTORNI 2012 Milano 13-19 Giugno 2012

25/07/2012 di Paolo Ronchetti

#CANNES E DINTORNI 2012

Raccontare, in questo 2012 così martoriato dai tagli, di cosa è stato e cosa è diventato Cannes e Dintorni potrebbe paradossalmente essere un’impresa semplice. Sempre meno film provenienti dal Concorso e dalla Quinzaine e ben sette titoli provenienti da vari festival italiani (Bergamo Film Festival, Far East Film Festival – Udine – Festival Del Cinema Africano, D’Asia E America Latina - Milano -) o da due anteprime (il bellissimo Il Distacco e il bel turco C’Era Una Volta In Anatolia già premiato a Cannes nel 2011).
Se a ciò aggiungiamo che per prendere i biglietti si devono occupare almeno tre mezze giornate: il sabato mattina per prendere gli abbonamenti -32€ per 8 ingressi-; il lunedì pomeriggio, via internet, per cercare di prenotare i biglietti prima che le proiezioni vadano esaurite (e comunque ben tre proiezioni erano già esaurite in un paio d’ore: il rumeno BEYOND THE HILLS vincitore dei premi per le migliori attrici e per la miglior sceneggiatura con la regia di Cristian Mungiu già premiato per il drammatico 4 Mesi, 3 Settimane, 2 Giorni -2007- e il satirico I Racconti Dell’Età Dell’Oro -2009-; MOONRISE KINGDOM dell’amato Wes Anderson; e RENGAINE atteso film di Rachid Djaidani che, anni dopo i lavori con Peter Brook, sembra mettere a segno un film forte e teso costato ben nove anni di lavoro, senza finanziamento, presentato alla Quinzaine con venti minuti ininterrotti di applausi!); il martedì per ritirare, presso l’infopoint, i biglietti prenotati.
Ciò vuol dire che o sei pensionato o un libero professionista perché tre mezze giornate più una settimana di proiezioni solo loro, forse, se li possono permettere! Personalmente ciò ha voluto dire meno giorni dedicati alle proiezioni e meno film visti.
Ma ridurre questa manifestazione solo a queste osservazioni è sicuramente irriguardoso e scorretto nei confronti degli organizzatori di Lombardia Spettacolo che con grande sforzo (e con l’aiuto del Corriere Della Sera e della Provincia Di Milano) preservano uno spazio di cultura minacciato da tagli continui e difficoltà burocratiche al limite del sopportabile! Cannes e Dintorni varrebbe la spesa e la fatica anche se il prezzo fosse maggiore e i film meno numerosi e belli!
Partiamo quindi con un’analisi generale dei 12 + 1 film visti ricordando che la visione era, fortunatamente e come sempre, in originale con i sottotitoli a parte per quel +1 (COSMOPOLIS) visto qualche giorno prima della rassegna già doppiato.

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CANNES

Sezione Ufficiale Concorso:
Il primo film visto, e quanto ne possono aver subito le conseguenze i film successivi, è stato il giustamente premiato con la Palma D’oro AMOUR di Michael Haneke. Film Hanekeiano sino all’essenza AMOUR ci rimanda ad uno stile di racconto inimitabile e straordinario. Ed è veramente un peccato che da quest’anno non si possa dare più di un premio principale a film perché Emanuelle Riva e Jean-Louis Trintignant, per ciò che ho visto del concorso, avrebbero assolutamente meritato il premio come migliori attori! Il COSMOPOLOIS cronenberghiano galleggia novello Ulisse dantesco, oramai senza senno, tra i simulacri di una civiltà ormai morente (e quanto i manifestanti al di là del vetro assomigliavano agli Zombie romeriani de “L’alba Dei Morti Viventi”?). Di DE ROUILLE ET D’OS (RUGGINE E OSSA) posso sottolineare ancora il fastidio per la sua ambiguità scorretta cui rimando nella recensione completa; e, in positivo, i corpi straordinari degli attori (con la potente sensualità di Marion Cotillard con o senza gambe) oltre a una colonna sonora assolutamente “da avere”.

Quinzaine Des Realisateurs
Rimandando alle recensioni più lunghe dei più o meno riusciti 3, ALYAH e LE REPENTI, due parole le spendo per la riuscita e semplice commedia dal tocco francese CAMILLE REDOUBLE: sana, pulita e così inarrivabile per noi italiani. INFANCIA CLANDESTINA, esordio alla regia di Benjamin Avilla, ha il suo fascino nel ricostruire il dramma della dittatura vedendolo con gli occhi, e il cuore, di un preadolescente: un film tra il personale e il politico che riapre più di una ferita.
In qualche modo il messicano LA SIRGA percorre gli stessi sentieri parlando di una ragazza che fugge da una guerra inesorabile presso luoghi desolati quanto suggestivi.
Dalla delirante analisi kubrickiana di ROOM 237 qualcosa in più, in termini di concretezza, forse mi sarei aspettato ma è bello sapere come, in tanti, si stia dedicando il proprio, si suppone, prezioso tempo dietro alle ossessioni più nascoste di Shining e, soprattutto, di Kubrick.

I DINTORNI:

Far East Film Festival
Di THERMAE ROMAE, come di tutti i film, parlo più lungamente nelle prossime pagine. In queste righe mi domando solamente se sarei stato così clemente se il film fosse stato italiano. Spero in molti lo possano vedere in originale e che a nessuno passi in testa di doppiarlo. Il manga originale Thermae Romae di Mari Yamazaki è stato pubblicato, tradotto in italiano, dalle Edizioni Star Comics.

Anteprime
Le due belle anteprime di questo Cannes e Dintorni DETACHMENT-IL DISTACCO (del regista di American History X Tony Kaye) e C’ERA UNA VOLTA IN ANATOLIA (del pluripremiato regista di Uzak e Le Tre Scimmie, il turco Nuri Bilge Ceylan) ci portano a una riflessione semplice: due film così profondamente diversi per storia, geografia, intenzione e regia riescono a mettere in moto pensieri e godimento per/della visione in modo così forte che si rende evidente quanto questa settima arte, forse ormai leggermente invecchiata rispetto dagli splendori di un tempo, abbia ancora forza e valore sia dal punto di vista del piacere che da quello del “senso”.

 

LE RECENSIONI



IL CONCORSO


AMOUR

di Michael Haneke
(Francia, Germania, Austria - 2h07 - v.o. francese, sott. italiano)
con Jean-Louis Trintignant, Emmanuelle Riva, Isabelle Huppert
PALMA D’ORO

Georges e Anne sono due insegnanti di musica ottantenni ora in pensione. Si incamminano verso una vecchiaia serena, nonostante qualche reciproca ruvidità, quando una prima paralisi e poi una seconda tolgono mobilità e fin quasi la parola alla donna. Inizia così una specie di calvario per la coppia: le perdite di controllo della donna sul proprio corpo si intrecciano alle prove d’amore e di disponibilità da parte dell’uomo. Haneke le filma senza compiacimento ma anche senza nascondere niente, ottenendo dai suoi due protagonisti un’eccezionale prova d’attore.

Haneke, in AMOUR, seziona da chirurgo dell’anima il dolore della malattia e della vecchiaia attraverso l’affetto e la dedizione di un uomo verso la donna che ama. È una dedizione totale e totalizzante che esclude sempre più l’alterità del mondo (a partire dalla figlia) dalle vite della coppia, troppo presa dall’avvicinarsi dell’alterità più grande, quella della morte. Ma non basta questo. L’alterità dolente e spaventosa si manifesta a partire dai propri corpi modificati dalla malattia sino a renderli irriconoscibili (a rendersi irriconoscibili) se non a prezzo di un dolore accecante per chiunque lo possa vedere. E allora la chiusura a riccio della coppia è salvaguardia propria e salvaguardia “del mondo” perché non veda e non continui a rimarcare unicamente la presenza del dolore e l’avvicinarsi dell’inevitabile. Nonostante gli sforzi, come in molti film di Haneke, l’inevitabile è esattamente quello che è: un inevitabile senza motivo apparente; qualcosa di così nascostamente evidente da obbligarci comunque e sempre a una riflessione su cosa (e come) abbiamo visto e su cosa (e come) tutto l’evidente sembri non bastarci.

Ho sentito dopo la proiezione (poche) persone lamentarsi della “freddezza da tavolo di marmo” di questo film, come se non ci fossero bastare le immagini e la capacità di Haneke di sezionare il dolore asciutto attraverso la vita di Georges e Anne; come se si volesse chiedere un portato interpretativo più drammatico rispetto al modo di girare o, ancor peggio, alla recitazione incredibile per misura della coppia Trintignan/Riva.

Questo film invece, con la sua essenzialità, ci lascia attoniti esattamente come ci lascia attonita la vita.

Voto •••••

 

COSMOPOLIS
di David Cronenberg
(Francia, Canada - 1h48 - v.o. inglese, sott. italiano)
con Robert Pattinson, Juliette Binoche, Sarah Gadon, Mathieu Almarich, Jay Baruchel

New York è in tumulto: l’era del capitalismo sembra volgere al termine. Erick Packer,rampollo dell’alta finanza, osserva l’ombra che sta calando su Wall Street, dove lui è il re incontrastato. Mentre la visita del presidente degli Stati Uniti paralizza Manhattan, Erick è bloccato nel traffico a bordo di una limousine bianca che dovrebbe condurlo dall’altra parte della città, dal vecchio barbiere del padre mentre scoppiano tumulti di piazza e rincorrono incontri fatti di sesso con una prostituta (una sensualissima Juliette Binoche) e della sua mancanza con la moglie (una algida Sarah Gadon). Intanto il vertiginoso aumento del tasso di cambio dello yuan porta Erick a perdere, ogni istante che passa, una parte del suo impero e del suo senno. Si fa strada in lui la certezza paranoica che qualcuno stia per assassinarlo. Tratto dall’omonimo romanzo di Don DeLillo, anche il film si sviluppa nell’arco di una giornata, descrivendo l’odissea del protagonista.


Certamente gli ultimi film di Cronenberg hanno lasciato più di uno spettatore con l’amaro in bocca. Personalmente io non sono rimasto deluso dalla coppia “Inseparabile” Sigmund Freud/Carl Joung alle prese con le proprie ossessioni, rese ancor più manifeste nel triangolo sessual/terapeutico con Sabina Spielrein. Dangerous Method in fondo era un film che spaventava così tanto il pubblico perché cercava di parlare del rimosso e perché, più banalmente, parlava di come prima di risolvere i problemi degli altri si debba lavorare sui propri: del fatto che i vizi privati forse non sempre debbano avere il valore assoluto di una condanna pubblica; che puoi essere ossessivo egoista e con un vissuto di “inferiorità” da piccolo borghese che ha bisogno di scalare le classi sociali e essere comunque il padre di uno dei pensieri più rivoluzionari dell’essere umano; che puoi essere visionario sin quasi al pensiero allucinato (date uno sguardo al suo Libro Rosso/Liber Novus e poi ne parliamo) ed essere l’allievo capace di affrancarsi dal maestro proponendo un pensiero personale e altrettanto rivoluzionario; che, soprattutto, puoi essere una minorenne isterica con turbe sessuali e pensieri, e agiti, sadomasochisti, e diventare da adulta la dolce madre della neuropsichiatria infantile; che la follia ci riguarda tutti; che dalle follie si può in qualche modo guarire e che possono diventare addirittura un motore alla creatività della nostra vita.

Il valore importante dello “scarto” del pensiero, del pensiero innominabile e nascosto, celato del sogno e nel suo più doloroso corrispettivo da vegli: il delirio. Di come tutto il novecento abbia avuto, dalle arti figurative alla letteratura, dal cinema alla musica, esattamente nel pensiero scartato, le sue nobili e più proficue fondamenta (ma in realtà mi sovviene di come anche Gesù parli della pietra “scartata” come della pietra angolare della sua “costruzione”.)

Ma torniamo a questo Cosmopolis. Confesso di non aver letto il libro di DeLillo e di essere rimasto folgorato non tanto dalla presunta verbosità del film (presente anche in Dangerous Method e forse diventato, assieme allo stile raffreddato, nuova cifra stilistica volutamente investigata dal Cronenberg), quanto dall’avere rivisto, con anni di distanza, una nuova versione, anche se radicalmente diversa, di Videodrome.

Come in Videodrome l’ossessione, lo scarto, è motore dell’azione del protagonista e non tutto sembra avere un perché. Come in Videodrome, ma forse con minor fascino, sta esattamente nell’ossessione e nella sceneggiatura volutamente non risolta, una grande parte dell’interesse del film. Molti “perché” sfuggono e proprio per quello si fissano nel pensiero come il tumore al cervello di Max Renn che in Videodrome era attivato da immagini “sconvenienti” che s’imprimevano nel cervello producendo alterità mortale.

In questo viaggio verso il proprio destino Erick Packer, un ottimo Robert Pattinson, si smarrisce in preda alle proprie paranoie come un novello Max Renn; apparentemente libero ma probabilmente schiavo di un nuovo potere cui sfuggire ricercando (ancora?) una “nuova carne” in cui rinascere. Da segnalare una bellissima colonna sonora e l’ottima prova degli attori con una menzione particolare per l’allucinatissimo Paul Giamatti.

Voto ••••

 

DE ROUILLE ET D’OS (RUGGINE E OSSA)
di Jacques Audiard
(Francia, Belgio - 2h00 - v.o. francese, sott. italiano)
con Marion Cotillard, Matthias Schoenaerts, Armand Verdure, Céline Sallette

Ali si ritrova improvvisamente con Sam, 5 anni, in braccio. È suo figlio, ma lo conosce appena. Senza casa e senza soldi, Alì lascia il nord della Francia per cercare rifugio da sua sorella, ad Antibes e trova lavoro come buttafuori in un nightclub, dove incontra la bella Stéphanie, un’addestratrice di orche. Dopo mesi Ali riceve una chiamata inaspettata da Stéphanie. Quando la rivede è su una sedia a rotelle: ha perso sia le gambe che la speranza. Lui la aiuta a rinascere, senza compassione. Tra i due nasce una relazione che lascia poco spazio ai sentimenti, fino a quando un’altra tragedia viene sfiorata. Grazie al dolore che sono costretti ad attraversare, il rude e muscoloso Ali e la principessa arrogante Stéphanie scoprono la forza dell’amore.

Jaques Audiard, il regista dell’acclamato Un Profeta, è un personaggio che artisticamente non so definire. Certamente Un Profeta aveva momenti di bellezza visiva straordinaria. La scena del cervo rimarrà sempre impressa nella mia retina ma alla fine non ero riuscito a capire se il film fosse una “boiata pazzesca” o un capolavoro! Le attese e la curiosità per questo Ruggini Ed Ossa erano dunque molto alte. Alla fine della proiezione (con una colonna sonora assolutamente incredibile tra cui spiccava un remix straordinario di State Tropper di Springsteen -Nebraska 1982- trattata come fosse un brano dei Suicide!) mi alzavo felice dicendo, tra me e me, che probabilmente questo capolavoro era il film più bello della rassegna e probabilmente di quest’anno!

Male mi accolse il risveglio…ma ancora peggio accolse il povero film di Audiard. Rabbia e disgusto erano i sentimenti che la notte aveva rielaborato. Raramente la lucidità di una presa in giro mi aveva colto così inaspettato. Un abile film per cuori semplici in cui il potere ricattatorio della storia, con i suoi “bei” personaggi abitanti una marginalità così correttamente scorretta e maledetta; la sua bella forma affascinante; i momenti d’impegno civile; e la scoperta esibizione di corpi belli, ancorché martoriati, hanno, come fine ultimo, esclusivamente il mostrare un profondo disprezzo per lo spettatore. Tutto il film è frettoloso e fatto di episodi e storie vagamente e stilisticamente collegate e, soprattutto dopo la mutilazione, non è dato a Stephanie, e allo spettatore, nessun tempo per la rielaborazione del trauma (e non parliamo della storia finale così banalmente telefonata e ricattatori!). La facilità (ma soprattutto la solenne indifferenza iniziale del “pubblico” sulla spiaggia, che sfiora il ridicolo nella successiva ostentazione) con cui concede al piacere di essere oggetto dello sguardo altrui sembra più una possibilità dataci per ammirare lo spettacolare corpo della Cottilard che il segno di una ripresa della propria vita.

Ma certamente Audiard ha talento visivo da vendere e anche in questo film c’è una scena che non potrò mai più scordare: quando la protagonista, ormai avviata verso un riscatto personale affettivo e sociale, incontra il piccolo figlio del protagonista che gli chiede di mostrargli le sue gambe metalliche. Bene in questo pudico alzare i calzoni sino al ginocchio bionico e nello sguardo pieno di meraviglia del bambino, nella sua voglia di esplorare questa donna robot (così simile ai suoi giochi e alle sue visioni televisive) abbiamo la stessa magia di tutto un Hugo Cabrèt racchiusa in 30 secondi. Abbiamo il Cronenberg di Crash e il Lang di Metropolis, lo Spielberg di ET e qualcosa che non abbiamo ancora visto e già ci meraviglia.

Voto (0) al film
•••••  alla scena

 

QUINZAINE DES REALISATEURS


3
di Pablo Stoll Ward
(Uruguay, Germania, Argentina, Cile - 1h59 - v.o. spagnolo, sott. italiano)
con Sara Bessio, Anaclara Ferreyra Palfy, Humberto de Vargas

Ana, un’intraprendente adolescente, sta attraversando una fase decisiva della propria vita. Sua madre, Graciela, sembra anch’essa trovarsi ad un bivio. Rodolfo, il padre di Ana e l'ex marito di Graciela, non riesce più a sentirsi a proprio agio con la seconda moglie e la casa gli appare vuota e fredda. L’uomo cercherà pian piano di riavvicinarsi alla ex moglie e alla figlia lasciate dieci anni prima. “3” è una commedia incentrata sulla storia di tre persone forse condannate allo stesso destino: essere una famiglia.

Commedia in minore questa produzione uruguagia dove per minore si intende non un minore di qualità quanto un incedere in minore, dimesso e più incline all’assurdo e al contemplativo (???). Ogni personaggio, i tre più la nuova compagna di lui (che sarà una presenza/assenza, quasi mai vista, per tutto il film) e il nuovo compagno di lei, sembrano vivere in assurdi mondi privati pieni di ossessioni e problemi personali.
Come comunicare quando non c’è spazio per le parole? Ecco, il protagonista trova, anche all’interno di un corpo ingombrante e di una comunque autentica passione per le cose, nel “fare” una via di comunicazione dapprima osteggiata quindi tollerata e infine, sorprendentemente, gradita. Tra tutti i personaggi l’indolenza della figlia e l’assurda, mesta, imbarazzante e caparbia volontà del protagonista (che non conosce minimamente il senso del ridicolo), uno strepitoso Humberto De Vargas, sono quelli che più rimangono nel cuore anche a molti giorni di distanza dalla visione.

Voto•••/ 
   

ALYAH
di Elie Wajeman
(Francia - 1h30 - v.o. francese, sott. italiano)
con Pio Marmaï, Cédric Kahn, Adèle Haenel

Parigi 2011. Alex, di origine ebraica, ha ventisette anni. Vive vendendo droga e paga i debiti del fratello Isaac che, dopo essere stato un valido supporto, è diventato per lui solamente un peso. Quando suo cugino gli annuncia che aprirà un ristorante a Tel-Aviv, Alex immagina di raggiungerlo per cambiare la propria vita. Determinato a partire, il ragazzo dovrà trovare il denaro, lasciare Parigi, allontanarsi dal fratello e trovare la propria strada. E l’amore?

Bene questo film, piacevole ma senza infamia e senza lode, ha, dal mio punto di vista, un grande motivo d’interesse: finalmente si parla pubblicamente della pratica dell’Alyah. La Alyah è il processo per cui è favorito il ritorno in Israele delle popolazioni ebraiche. Questa pratica è tra le principali tradizioni legate al sionismo ed era cosa di cui avevo sentito solo nascostamente parlare, con curiosità, non essendo io di origine ebraica, come fosse quasi una cosa segreta (cosa che probabilmente non è ma che ne accresceva la fascinazione). Tornando al film non c’è nulla che vada al di là di un piacevole tentativo di riprendersi in mano il proprio destino al di la della famiglia, delle convenzioni sociali e dei casini personali. E siccome anche l’amore sembra arrivare troppo tardi, forse (forse….) sacrificando anche quello.

Voto ••

 

CAMILLE REDOUBLE
di Noémie Lvovsky
(Francia - 2h00 - v.o. francese, sott. italiano)
con Noémie Lvovsky, Samir Guesmi, Yolande Moreau
PREMIO SACD (Société des Auteurs et Compositeurs Dramatiques)

Camille ha sedici anni quando incontra Éric. I due si amano appassionatamente e concepiscono una bambina. Venticinque anni dopo, Éric decide di lasciare Camille per una donna più giovane. La sera del 31 dicembre, Camille improvvisamente ripiomba nel proprio passato. Ha di nuovo sedici anni, rivede i suoi genitori, le sue amiche, la sua adolescenza ed Éric. Tenterà di cambiare il destino di entrambi? Riuscirà ad amarlo ancora nonostante la consapevolezza che verrà abbandonata?

E rieccoci! Di nuovo la capacità francese di fare una commedia godibile e fresca con naturalezza. Tutti all’uscita a domandarsi perché nessun italiano riesca ad avere questa leggerezza impunita! Un tocco unico che noi sembriamo non avere mai, costretti alle iperproduzioni o alla spocchia autorale. Un film semplice nella storia e con interpreti deliziosi. Un film in cui nulla, dalla recitazione all’ambientazione storica, è forzato se non per precise esigenze di sceneggiatura e regia! Camille è, nel suo “Ritorno al passato”, la stessa Camille di sempre con un corpo e una testa da quarantenne ma ripiombata nel proprio passato e quindi vista da tutti con il cervello e il corpo di un’avvenente sedicenne. Il tutto senza volgarità e con alcune riflessioni sul proprio destino e sulle scelte della vita, soprattutto della propria vita affettiva, magari un po’ semplici ma mai buttate via banalmente. Tutto a merito di Noémie Lvovsky che dopo aver recitato in piacevoli film quali Il Primo Bacio (veramente divertente e delicato) e 17 Ragazze si lancia spavalda, non per la prima volta, in una prova registico/attorale piena di misura e affetto per i personaggi.

Insomma probabilmente è inutile sperare in una distribuzione italiana del film che è molto gradevole anche se di certo non un capolavoro. Camille Redouble non piacerà alle nostre produzioni sempre piene di cose inutili, di case e ambienti improbabili e di recitazioni (e doppiaggi) ingessati. Si forse è meglio non arrabbiarsi troppo e godersi questo film in originale piuttosto che volgarizzato da “belle voci”. E scusatemi l’egoismo.

Voto •••/

 

INFANCIA CLANDESTINA
di Benjamín Ávila
(Argentina, Spagna, Brasile - 1h52 - v.o. spagnolo, sott. italiano)
con Ernesto Alterio, Natalia Oreiro, César Troncoso

Argentina 1979. Juan, 12 anni, e la sua famiglia ritornano a Buenos Aires da Cuba sotto falsa identità dopo anni di esilio. I genitori di Juan e suo zio Beto sono membri dell'organizzazione “Montoneros”, in lotta contro la giunta militare al potere. Per i suoi compagni e per Maria, di cui è innamorato, Juan si chiama Ernesto. Non deve dimenticarlo, anche la più piccola distrazione può essere fatale a tutta la famiglia. Il film racconta una storia di clandestinità, attivismo e amore.

Film dolorosamente autobiografico sulla resistenza armata alla dittatura militare argentina degli anni ’70, ci fa rivedere, attraverso gli occhi di un bambino (un po’ come nel brasiliano L’anno In Cui I Miei Genitori Andarono In Vacanza presentato nel 2006 alla berlinale e uscito da noi un paio di anni dopo), il dramma di una generazione costretta a negare la propria esistenza per sopravvivere. Il bello di Infancia Clandestina sta non tanto in una ricostruzione degli anni settanta tanto carina da sembrare, come spesso capita, un po’ falsa, quanto nell’indovinare la costruzione dei caratteri dei personaggi. Certo tutti sono leggermente ingessati ma rappresentano bene e credibilmente come si è agli occhi di un bambino, cresciuto troppo in fretta, alle soglie dell’adolescenza e alle prese con i primi turbamenti amorosi e la complessità del mondo femminile. Perciò il padre intransigente idealista e combattente; la madre combattente ma, alla fine, soprattutto “madre”; lo zio Beto sognatore che contagia Juan/Ernesto di voglia di vivere e irrazionalità, sono caratteri cui ognuno di noi potrebbe dare un volto nella propria storia.
Personalmente ho trovato bellissimi i momenti in cui il film abbandona la realtà per trasformarsi in qualcosa di magico o di angosciante e, in quest’ottica, l’uso di una canzoncina infantile che compare più volte, trasfigurandosi sino all’allucinazione, è assolutamente straordinaria! Da notare come in alcuni momenti, i più violenti, i personaggi e le azioni siano sostituite da un’animazione incisiva e crudele.

Voto•••

 

LE REPENTI (EL TAAIB)
di Merzak Allouache
(Algeria - 1h27 - v.o. arabo, sott. italiano)
con Nabil Asli, Adila Bendimered
PREMIO LABEL EUROPA CINEMAS

Un uomo fugge attraverso una vasta distesa desertica, una sacca pesante sulle spalle, inciampa sui sassi e getta occhiate inquiete dietro di sé: un disertore del terrorismo in un Paese, l’Algeria, piegato sotto il peso del passato della “guerra sporca” degli Anni ‘90 e che si dibatte nel vortice complesso del perdono e della vendetta. Filmato in venti giorni con un piccolo budget, “Le repenti” passa dai tumulti della città ai paesaggi degli altipiani. Sofferenza, peso dei ricordi, desiderio di vendetta, tentativo di perdono e di riconciliazione (con gli altri e con se stesso) sono comuni a tanti luoghi e a tante genti.

L’impossibilità di una riconciliazione dopo una guerra civile; la povertà dei rapporti umani sempre e comunque legati dal ricatto (economico, religioso, affettivo…) e al rancore. Rancorosi sono i rapporti tra le parti che erano in guerra, i rapporti tra marito e moglie, tra il pentito (Le Repenti appunto) e i suoi ex compagni, i suoi ex avversari, e una società che lo relega in uno scantinato a cercare il modo di scampare alla propria sorte con la tentazione di fare la spia per guadagnarsi una nuova dignità. Oppure la prospettiva di indicare ad una (ex) coppia dove sia il corpo della loro bambina uccisa in cambio di soldi. I tutto con una regia semplice che evita accuratamente alcune banalità; una fotografia realista ed essenziale, una recitazione naturalistica per un film comunque interessante che vede alla regia un maestro ormai di lungo corso del cinema franco/algerino: Merzak Allouache
Ma si può uscire da una guerra civile solo essendo convinti che questa sia finita?

Voto ••/

 

ROOM 237
di Rodney Ascher
(Stati Uniti - 1h44 - v.o. inglese, sott. italiano)

“Shining”, di Stanley Kubrick, un film che più di ogni altro ha generato analisi, interpretazioni e controversie a proposito del suo reale significato. Prendendo spunto da una serie di conversazioni informali tra il produttore Tim Kirk ed i realizzatori, “Room 237”, esplora le molteplici teorie elaborate intorno al vero significato del film di Stanley Kubrick dando la parola a cinque appassionati di questo capolavoro della cinematografia horror.

Le Torri Gemelle 11-9-2001 crollarono per un attentato di Al Quaeda o implosero grazie alla dinamite della Cia? L’Uomo è veramente sbarcato sulla luna? Paul McCartney è vivo o è morto ed è stato sostituito da un sosia? Gli extraterresti vivono assieme a noi sulla terra? I dischi rock se sentiti al contrario contengono messaggi satanici?
Chi non ha mai visto una trasmissione dedicata a questi argomenti alzi la mano! Ebbene in fondo questa splendida opera di speculazione di Rodney Ascher non si distacca di molto da questo. Ma secondo voi quale delle domande poste all’inizio ha qualcosa, o addirittura è centrale, rispetto all’indagine di Room 237?
Non ci arrivate? Bene: in questo Room 237 tutto, o buona parte, del capolavoro kubrickiano è letto partendo dall’ipotesi che l’uomo non sia mai arrivato sulla Luna e che il regista del finto sbarco sia stato proprio Stanley Kubrick che successivamente, in Shining, abbia disseminato il film di indizi per svelare al mondo questo altrimenti inviolabile segreto!
Tutto ciò porta naturalmente il film su territori più assurdi che reali anche se dall’inizio alla fine i pensieri e le congetture sembrano reggere l’interesse dello spettatore. Interessanti gli studi sulla location e come questa sia stata modificata; un po’ forzati gli aspetti parasessuali della scena iniziale del colloquio con il manager dell’hotel; interessanti le letture psicoanalitiche legate alla camera della sessualità adulta; inutile, ma suggestivo, il gioco ghezziano del proiettare simultaneamente, e sovrapposto, il film partendo dall’inizio e dalla fine. Alla fine comunque un film che intriga con le molte voci che si sovrappongono in mille (più una) teorie speculative.

Voto ••/

 

LA SIRGA
di William Vega
(Colombia, Francia, Messico - 1h28 - v.o. spagnolo, sott. italiano)
con Joghis Seudin Arias, Julio César Roble, Floralba Achicanoy

La giovane Alicia, sconvolta e disorientata, fugge dalla guerra in cui ha perso i suoi affetti più cari. Si rifugia dall’unico parente rimastole, Oscar, proprietario di una piccola locanda sulle rive di una laguna tra le montagne delle Ande, “La Sirga”. Qui tenterà di ricostruire la propria vita, ma anche questo luogo non sarà risparmiato dai conflitti. Il ritorno del figlio che Oscar ha atteso per tanto tempo e i suoi legami con i protagonisti della guerra, porterà a “La Sirga” ciò che Alicia teme di più.

Da cosa e per quanto tempo scapperemo dalla guerra e dal dolore. La nostra felicità quante volte dovrà essere conquistata; quante volte ricostruiremo la nostra casa, e il nostro lavoro; quante volte i rapporti saranno ricuciti dalla diffidenza e dal dolore del nuovo inizio dopo la fuga e poi brutalmente interrotti. E l’amore?
Con una fotografia raffinata, particolare nei toni verdastri e legnosi, e un’ambientazione povera e lacustre, che rimanda alle paludità della vita, William Vega racconta di Alicia, delle sue fughe e dell’ineluttabilità della violenza di chi ha il potere contro chi sta faticosamente costruendo una piccola e diversa economia solidale. Racconta del prezioso sapere della povertà e di come la buona volontà e l’aiuto reciproco a volte sembrino servire veramente poco contro l’ignoranza violenta del potere. Bravissimi gli attori. Belle le musiche popolari e i luoghi che sanno di guerra e precarietà anche nel momento in cui dovrebbe prevalere la bellezza.

Voto •••

 

I DINTORNI


ANTEPRIME


C’ERA UNA VOLTA IN ANATOLIA
di Nuri Bilge Ceylan
(Turchia - 2h37 - versione in italiano)
con Muhammet Uzuner, Yilmaz Erdogan, Taner Birsel, Ahmet Mumtaz Taylan

GRAN PREMIO DELLA GIURIA AL 64° FESTIVAL DI CANNES (2011)

Tre auto viaggiano nel cuore delle steppe dell'Anatolia, cercando qualcosa nell’oscurità: ogni collina, ogni albero potrebbe essere il luogo giusto. Un assassino (?) cerca di condurre una squadra di poliziotti verso il luogo dove ha seppellito il corpo della sua vittima (?). Un’indagine lunga una notte che costringe i personaggi a guardarsi intorno e guardarsi dentro. "C'era una volta in Anatolia" è la storia di una notte diversa dalle altre, passata tra chiacchiere catartiche e segreti inconfessabili, cronaca di un viaggio interiore alla ricerca dell'ineffabile, è quel tempo in cui si cerca di capire la propria solitudine ostinata.

Peccato! C’era Una Volta In Anatolia parte e viaggia per due ore in modo straordinario e inaspettato tra il non senso e l’essenza stessa della vita. Lo fa con ironia e magia tra i rimandi a vecchi spaghetti western e storie personali ed universali utilizzando il tempo tra il tramonto e l’alba esattamente come nel film di Rodriguetz. È quando l’unità di tempo ha un piccolo scarto, quando la folle magia notturna scompare nel nuovo giorno che il film (che comunque, proprio li, riserva una delle scene più belle degli ultimi anni: la dissezione di un cadavere vista, ma soprattutto “ascoltata”, fuori campo!) si spegne. Ed è un peccato. I personaggi, solo apparentemente con il carattere grossolano della commedia, si rivelano, con il passare dei minuti, sempre più preziosi in un film corale come non se ne vedeva da tanto.
Insomma un piccolo capolavoro con un piccolo neo ma che rende questa Anatolia così vicina ai nostri mille altri sud (mentali ancor più che geografici).
Piccola nota: i due fratelli personalmente mi ricordano molto i fratelli protagonisti di “La Malvivenza” dall’album Oplà degli Avion Travel (1993).
                                                                                                                               
Voto••••

 

 

DETACHMENT (Il distacco)
di Tony Kaye
(USA - 1h37 - v.o. inglese, sott. italiano)
con Adrien Brody, James Caan, Christina Hendricks e Lucy Liu

La storia si svolge nell’arco di tre settimane in un liceo statunitense, dove le vite di alcuni insegnanti, studenti e amministratori sono viste attraverso gli occhi del supplente Henry Barthes (Adrien Brody). Henry, insegnante di notevole talento ma disilluso, si distingue dagli altri docenti, i quali hanno volutamente preso le distanze dai problemi dei ragazzi: grazie alla sua capacità di entrare in relazione con gli studenti, Barthes diventa in breve tempo un modello di riferimento per loro. L’incontro con un’adolescente senza tetto che lavora come prostituta e le dinamiche con gli altri studenti lo faranno vacillare.

Ecco cosa vuol dire fare un cinema di impegno civile senza smarrirsi nel buonismo e nella soluzione scontata. Tony Kaye utilizza i corpi le voci e i visi dei suoi attori per farci conoscere una parte della società americana (e non solo). Quella che non vorremmo credere che esista. Quella definibile esclusivamente in termini di complessità.
Le domande e le riposte al disagio degli studenti del liceo di questo Il Distacco sono sempre fallibili, complesse e, in buona parte, personali. La lotta di classe, scomparsa quasi ovunque, si ripresenta qui sotto mentite spoglie e si fa passione civile. Ma da sola la passione civile dei docenti e degli psicologi non basta. Se l’interrogarsi sul “perché” degli altri non diventa un interrogarsi sui propri perché e i propri limiti tutto è vano. La sconfitta è in agguato quando non si riconoscono dei segnali sotto i propri occhi. Quando si chiede troppo anche a se stessi. I docenti del film hanno tutti un qualcosa che li difende dall’evidenza della propria, e altrui, follia. L’accettarla e il riconoscerla in toto, a quel punto della vita, sarebbe un esercizio doloroso e probabilmente letale (soprattutto sotto una amministrazione che vede sempre più la scuola, e l’educazione in generale, come se fosse un’azienda e all’interno di una società che sembra aver smarrito ogni senso di responsabilità personale). Per Barthes il lavoro va avanti da anni assieme alla sua scelta di rimanere un “supplente”. Quasi un angelo che possa mostrare una alterità a volte difficile da accettare e, comunque, sempre consapevolmente, e dolorosamente, fallibile. La profonda consapevolezza lo poterà ad accettare il complesso rapporto con la baby prostituta con una misura unica e, in seguito, con un responsabile e adulto distacco pieno di affetto nella sua dolorosa necessità. Purtroppo non tutto nella vita è “leggibile” nelle sue conseguenze e altre situazioni sfuggiranno tragicamente di mano. Brody, almeno nella versione in lingua originale da me vista, recita con un’asciuttezza unica candidandosi ad essere sempre più l’attore icona di questo tempo. Un attore in cui rispecchiarsi nei dubbi e nel dolore così come nella dolce ironia.
Un film da vedere e rivedere come una lezione di filosofia che magari non si capisce immediatamente, ma in cui c’è uno sprazzo (ancorché fallibile) di luce e verità.

Voto •••••

 

FAR EAST FILM FESTIVAL


THERMAE ROMAE

di Hideki Takeuchi
(Giappone - 1h48 - v.o. giapponese, sott. italiano)
con Hiroshi Abe, Masachika Ichimura, Kazuki Kitamura, Takashi Sasano, Kai Shishido
MY MOVIES AUDIENCE AWARD FAR EAST FILM FESTIVAL 2012

Tratto dal manga di Yamazaki Mari, “Thermae Romae” racconta la storia dell’architetto Lucius Modestus, progettista di bagni termali nell'epoca imperiale di Adriano. A corto di idee per la realizzazione di nuove terme, Lucius viene improvvisamente risucchiato in un varco spazio-temporale che lo conduce in un bagno pubblico dell’odierno Giappone. Ignaro e stupito osservatore di un mondo fatto di oggetti a lui estranei, il disorientato Modestus carpirà i segreti di una civiltà tecnologicamente più avanzata, sfruttandoli per divenire l'architetto più celebre di Roma e guadagnarsi la fiducia dell’Imperatore.

Andare al cinema e trovarlo inaspetatamente pieno di giapponesi è sicuramente una cosa particolare. Trovarsi di fronte ad una commedia assolutamente strampalata piena di cattivo gusto e di folli anacronismi anche. Se poi pensate che il film è recitato da giapponesi in lingua nipponica e romano antico…beh, o si esce dopo trenta secondi dalla sala o si sta al gioco e si ride a crepapelle. Recitazione sopra le righe, romani e giapponesi trattati come macchiette, brani d’opera cantati da un tenore, a volte colto di sorpresa, come intermezzo tra le scene…il tutto tratto da un manga scritto da una giapponese che ha sposato un italiano! Non so se questo film potrà avere distribuzione italiana ma se ciò succederà spero non venga doppiato. Sarebbe veramente un delitto!
Folle e salutare

Voto•••