Jazz Reloaded, anni 2000

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Jazz Reloaded, anni 2000 Trent'anni nel segno del cambiamento

21/03/2021 di Vittorio Formenti

#Jazz Reloaded, anni 2000

30 anni di Jazz visto dalla prospettiva non scontata. Un viaggio temporale nel quale sarete accompagnati dai 3 Kings of Jazz della redazione. Seconda puntata.
Jazz Reloaded 1990 - 2000 - 2010 trent'anni nel segno del cambiamento

Il jazz è morto? Vexata quaestio sulla quale molti si accaniscono con pollice verso. Nulla è arrivato dopo Duke, Satchmo, Bird, Miles e Coltrane; tutto è già stato detto. Per noi di Mescalina questo è un grosso abbaglio, una valutazione superficiale frutto di ignoranza e ammuffita spocchia generazionale. Per testimoniare la ricchezza del jazz contemporaneo la redazione ha deciso di proporre questo speciale relativo all’ultimo trentennio, periodo molto poco trattato nella letteratura corrente. Certo, siamo ancora nella cronaca e non nella storia, ma i sintomi della vitalità ci sono tutti. Il lavoro riporta quindici titoli per ogni decennio con l’obiettivo non tanto di un'impossibile esaustività ma piuttosto di un invito alla scoperta. La ricerca si è orientata a individuare opere significative per la formazione di nuovi sentieri e sinceramente crediamo di aver offerto un buon contributo, utile per favorire una visione aggiornata del genere. Ovviamente si potrà obiettare che all’appello mancano molti riferimenti, ma ogni scelta presuppone una rinuncia senza tuttavia compromettere ulteriori aperture. Buona lettura e soprattutto buon ascolto a chi deciderà di sondare almeno qualcuna delle traiettorie presentate. (Redazione Jazz)



Sommario

DECADE 2000

 

MATTHEW SHIPP

NEW ORBIT

THIRSTY EAR (2001)



Matthew Shipp (piano) esprime il suo contributo al jazz contemporaneo più che come strumentista come compositore e leader di progetti. In continua tensione tra passato, presente e futuro, sperimentatore sul fronte dell’uso dell’elettronica, organizzatore originale di combo come realtà organiche più che come somma di individualità, fertile improvvisatore sul fronte degli stili Shipp è voce moderna in quanto costruttore di incontri.

Questo New Orbit é una riunione di maestri che beneficia delle visioni di Wadada Leo Smith (tromba) e dell’empatia con William Parker (basso) per una serie di brani che posizionano il genere ben oltre le sue coordinate classiche; non ci sono codifiche formali, prevale la ricerca in un universo di idee non etichettabili ma certamente seminali. Avanguardia accessibile e ben leggibile nello sviluppo dei brani; quindi un buon viatico al jazz di oggi.




MAT MANERI

SUSTAIN

THIRSTY EAR (2001)



Figlio del già “irriverente” sassofonista Joe Maneri Mat, alla viola ed al violino, ripropone una logica alla Ornette Coleman tramite una ricerca armonico / melodica che rappresenta uno dei lati più significativi del jazz cameristico radicale. Mat capitalizza i suoi studi accademici dal Barocco fino a Milton Babbit per arrivare ad avventurarsi nella sperimentazione della microtonalità, dando vita a un’espressione forse cerebrale ma densa di sfumature.

In questo lavoro é supportato da eccellenze quali Joe McPhee (sax), Craig Taborn (piano), William Parker (basso) e Gerald Cleaver (batteria) alle quali è affidato, a turno, un determinato brano. Ne risulta un’espressione “ruvida” delle potenzialità sonore di ciascun strumento superando ampiamente i tradizionali clichés dei chorus solistici. Oggi, a vent’anni dall’uscita, sembra voler ancora anticipare.



SPRING HEEL JACK

AMASSED

THIRSTY EAR (2002)



Certamente uno dei capolavori del decennio. Progetto varato dal duo inglese John Coxon e Ashley Wales parte dal drum’n’bass per stemperarsi in avventure multidimensionali grazie alla collaborazione con un cast stellare. Tra i molti si citano Kenny Wheeler (tromba), Matthew Shipp (piano), Han Bennink (batteria) e Evan Parker (sax), giusto per trasmettere l’ampio spettro dei contributi. Il risultato è spettacolare e sorprendente. Momenti magmatici alla Ayler che annullano la quadratura ritmica tipica del jungle originale, approccio quasi cubistico, frammenti di Braxton e perfino alla Pere Ubu. Un trionfo di stimoli per uno dei massimi risultati nell’incontro tra jazz, avanguardia ed elettronica. Assolutamente irrinunciabile.

 

BHOB RAINEY – GREG KELLEY

NMPERIGN

SELEKTION (2002)



Album radicale a cavallo tra elettronica sperimentale, musica concreta, free jazz e rumore. Rainey (sax soprano) e Kelley (tromba) portano agli estremi molti presupposti già presenti in movimenti precedenti unendo il tutto in uno spirito tipico dell’impro tedesca. Più che musica nel senso tradizionale si incontrano delle idee che celebrano l’assurdo, il cacofonico e l’irrazionale. Il duo sta agli anni 2000 come Braxton stette agli anni ’70 con le sue improvvisazioni al sax, rinunciando però loro anche a una certa logica. Decisamente estremo, da affrontare a piccole dosi, per chi ha coraggio e anche curiosità.




STEVE COLEMAN AND THE FIVE ELEMENTS

ON THE RISING OF THE 64 PATHS

LABEL BLEU (2002)



Musicista (sax alto e soprano) di Chicago crebbe influenzato dai grandi boppers che ascoltò nella sua città natale e dai leader dell’avanguardia di New York, ove si trasferì negli anni ’70. La sua concezione adotta l’idea mistica che la musica sia il linguaggio più adatto ad esprimere la realtà razionale e caotica dell’universo (un po’ alla Sun Ra). Pertanto negli anni ’80 – ’90 iniziò a viaggiare in Africa, India, Indonesia, Brasile e Cuba per studiare le tradizioni e le culture che offrivano gli elementi ancestrali di certa comunicazione. Questo è uno dei primi lavori frutto di tali ricerche. E’ interessante perché conserva ancora qualche ingrediente delle influenze bop iniziali e documenta quindi l’evoluzione di un fenomeno generale nel jazz contemporaneo: l’apertura ad altre realtà. Vorticoso, per certi versi caotico, fortemente narrativo e certamente innovativo.




TIM BERNE

SCIENCE FRICTION

SCREWGUN (2002)



Berne (sax alto e soprano) deve molto alla lezione non certo semplice di Julius Hemphill da cui trae una forte spinta verso la sperimentazione di un linguaggio proprio, una grammatica alla “loft jazz” contemporaneo. In compagnia di Craig Taborn (piano), Tom Rainey (batteria) e Marc Ducret (chitarra, grande il suo contributo) Tim realizza un affresco completo della propria arte. Strutture libere, cammei brevissimi contrapposti a lunghe divagazioni, linee spezzate, utilizzo della sovraproduzione come elemento compositivo costituiscono gli ingredienti di un jazz a cavallo tra l’intellettuale e il viscerale, l’avanguardia e il funk, la complessità e l’immediatezza. Una dialettica tutta del suo tempo.

 

VIJAY IYER

BLOOD SUTRA

PI RECORDINGS (2003)



Figlio di immigranti Tamil (India del Sud) Iyer è uno dei più interessanti artisti del jazz post anni ’90. Laureato in matematica e fisica e studioso di violino e piano mette a frutto questa sua sensibilità multidisciplinare allargando gli interessi musicali ad altri generi quali il rock, il pop e l’etnica. Se a questo si uniscono frequentazioni in ambiti di ricerca con artisti quali Steve Coleman, Roscoe Mitchel, Wadada Leo Smith e altri, ne deriva un repertorio originalissimo e ricco di spunti. Blood Sutra è uno dei possibili punti di partenza per conoscerne l’arte. Pianismo tra Monk e Taylor, ritmi funk spezzati alla Steve Coleman, struttura melodiche alla Ornette Coleman portano a un totale aggiornamento del linguaggio jazz. Non immediato ma accessibile se ascoltato con attenzione.




DAVID S. WARE QUARTETS

LIVE IN THE WORLD

THIRSTY EAR (2005)



Parlare di jazz del nuovo millennio non implica necessariamente tagliare i ponti con la storia del genere. David S. Ware rappresenta uno dei migliori esempi di crescita sul fertile terreno del passato. Ritenuto da molti uno degli eredi del lascito di Coltrane Ware non ne prolunga la replica. Raccoglie l’approccio dell’ultimissima fase del gigante di Hamlet semplificando armonie, ricorrendo a timbriche e melodie tribali con forti slanci sulle dinamiche. Tale ricerca ancestrale è ben evidenziata in questo triplo CD dal vivo ricavato da tre concerti. Realizzato con Matthew Shipp al piano e William Parker al basso prevede l’intervento di diversi batteristi: Susie Ibarra, Guillermo Brown e Hamid Drake. Il tutto a traghettare il passato verso lidi di nuova ricerca. Solo apparentemente ostico richiede più ascolti.



ACOUSTIC LADYLAND

LAST CHANCE DISCO

BABEL LABEL (2005)



Se si volesse indicare un riferimento per la definizione di “punk jazz” questo disco sarebbe un ottimo candidato. L’inglese Pete Wareham (sax), membro del collettivo F-IRE e intenzionato a reagire allo status quo del jazz, dà vita ad un lavoro ad alto impatto fisico e sonico. Tra il grindecore e un garage ruvido vengono in mente certi momenti degli Old Time Relijun (senza canto) e degli Oneida per via del continuo ostinato su riff semplici e distorti. L’estetica jazz richiama elementi del free ed è esposta dalla voce del sax che lavora sul tappeto ritmico dei riff di cui sopra. Molto più vicino all’hardcore che al jazz è certamente uno dei momenti più vibranti all’interno delle tendenze post anni ’90.

 

MARC RIBOT

SPIRITUAL UNIT

PI RECORDINGS (2005)



Nell’universo della chitarra moderna Marc Ribot è certamente una delle voci più originali data la sua capacità di far suonare lo strumento come se fosse universale. In questo lavoro Ribot tributa un omaggio al suo mentore Albert Ayler e manifesta chiaramente quanto sopra premesso. La ricerca di sonorità che, per quanto possibile, richiamino il sax di Ayler così come altri timbri (violino) confermano la capacità di Ribot di virare da momenti cacofonici e magmatici ad altri eleganti senza introdurre soluzioni di continuità nelle sensazioni. Uno degli interpreti più significativi del proprio strumento nel panorama del nuovo millennio.




WILLIAM PARKER BASS QUARTET

REQUIEM

SPLASC(H) (2006)



William Parker é un contrabbassista e un compositore che affonda le sue radici nella musica creativa degli anni ’60 e ’70 e che porta a compimento con un approccio di workshop continuo. Più che come strumentista Parker è interessante per i suoi progetti. Questo Requiem è frutto di una registrazione dal vivo con un insolitissimo quartetto di contrabbassi. Con lui ci sono Alan Silva, Henry Grimes e Sirone, ossia tra i massimi rappresentanti di quelle radici free di cui sopra. Alle “melodie” l’ancia di Charles Gayle con ruoli più onomatopeici che di canto. Una polifonia magmatica cementata dal ritmo di Parker ed estesa dagli archetti dei partners e dal sax quasi ayleriano. Una declinazione moderna del free / loft / creative degli anni ’70.




ITALIAN INSTABLE ORCHESTRA

CREATIVE ORCHESTRA

RAI TRADE (2007)



Big Band fondata da Pino Minafra (tromba) nel 1990, orientata all’avanguardia e all’improvisazione, collabora in questo disco dal vivo con Anthony Braxton dando luogo a un ottimo esempio di concezione orchestrale jazz moderna. Il leader di Chicago esercita ovviamente una predominanza nell’impostazione del programma, tutto basato su sue composizioni. Le tipologie linguistiche di Braxton a tratti condizionano con frasi brevi e frammenti ma l’equilibrio viene mantenuto e anche i solisti dell’orchestra trovano il loro spazio. A cavallo tra accademia contemporanea e jazz, tra scrittura e improvvisazione il lavoro trova esito nel senso compiuto del collettivo. Molto distante dalle tradizionali Big Bands.

MARKELIAN KAPEDANI

BALKAN PIANO

RED (2008)



Esemplare testimonianza di quell’incontro con “altre musiche” che ha determinato una delle direzioni più significative del jazz contemporaneo. Kapedani, pianista albanese di nobili origini e con profonde radici familiari nella musica, produce uno dei migliori lavori del cosiddetto jazz balcanico. Disco di piano solo riesce a tenere incollati all’ascolto per via delle numerose sfumature, influenze, richiami e sincretismi che propone. Sopra tutto c’è il ricorso al folk con un approccio alla Bartok, magari meno “formale” ma rispettoso dei profumi originali del patrimonio indagato. Alcuni passaggi ricordano i migliori “solo” di Jarrett. Decisamente affascinante e stimolante oltre che rappresentativo.



ENRICO RAVA

NEW YORK DAYS

ECM (2009)



Non ci sono dubbi che Rava sia il jazzista italiano a maggior caratura internazionale vista la sua carriera che fin dagli anni ’60 lo vide collaborare con artisti del calibro di Gato Barbieri e Steve Lacy. Interprete di un’estetica a cavallo tra gli insegnamenti di Davis e Baker Rava ha comunque sempre espresso una sua voce personale, riconoscibile e sempre legata a un lirismo essenziale. Escursioni limitate, dinamiche controllate e uso dei silenzi hanno dato vita a un linguaggio personale e paradossalmente intenso. In questo lavoro, che celebrava i suoi 50 anni in musica, si riscontrano tutti gli ingredienti di un jazz senza tempo. Grazie al contributo di un combo stellare la labilità delle parti e la sensazione di astratto codifica al meglio il sound prodotto da un’etichetta decisamente rappresentativa nel jazz contemporaneo.

STEVE LEHMAN OCTET

TRAVAIL, TRANSFORMATION AND FLOW

PI RECORDINGS (2009)



Sassofonista e compositore cresciuto sotto l’insegnamento di Anthony Braxton presenta in questo suo lavoro alcuni risultati delle sue ricerche sulla cosiddetta “Musica Spettrale”. La definizione va intesa in senso tecnico ovviamente e non occultistico. Lehman ricorre a suoni creati tramite rapporti variati delle frequenze che vanno oltre le altezze delle scale standard. Ci si avvicina quindi alla microtonalità e i brani acquistano fascino soprattutto per il loro sviluppo orizzontale, che va oltre il melodico tradizionale esprimendo il contenuto armonico tramite il gioco degli intervalli successivi. Può apparire algido e intricato ma i contrappunti e la corposità dell’ensemble conferiscono un’energia che supera la pura speculazione teorica.