Michele Gazich

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Michele Gazich La via del sale in anteprima

19/09/2016 di Autori vari

#Michele Gazich#Italiana#Canzone d`autore

Presentazione, recensione e intervista per condurvi tra le note del settimo album del cantautore, in anteprima streaming, nella sua scrittura migrante e carsica, che scava a fondo nelle cose, tra le rovine del passato e quelle del futuro, per riflettere su ciò che si distrugge e ciò che probabilmente resisterà: “Mentre il ponte cade io ti canto la canzone / Visione, inno, gioia, filo d’erba / Perché un giorno un giorno possa rimarginarsi questa barricata”.
Presentazione e recensione di Ambrosia Jole Silvia Imbornone

Il sale è stato a lungo nel mondo una risorsa preziosa, per conservare i cibi o insaporirli dopo la conservazione o quando cominciavano ad andare a male; per agevolarne il trasporto furono costruite strade appositamente progettate per il passaggio delle carovane: il caso più celebre è quello della Salaria romana. Le vie del sale oggi sono spesso percorsi dimenticati, ma non sono l’unico luogo che i cambiamenti dell’economia e i progressi della tecnica abbiano svuotato di importanza. Allora Michele Gazich nel suo settimo lavoro ha pensato di cantarci le nostre contemporanee Vie del sale, in un’Europa odierna “fatta di resti industriali, maestose rovine del terziario, biblioteche sommerse dalle acque, città distrutte, migrazioni e barricate”. Per attraversare questi luoghi, il cantautore, “incarnazione contemporanea dell’ebreo errante”, in pezzi composti in giro per il mondo affianca strumenti contemporanei e popolari, con l’intento di ricostruire un folk-rock tutto italiano, “senza prestiti anglosassoni o americani”, “risonante di strumenti folk effettivamente nostri e di melodie che rievocano la tradizione e la musica colta italiana e del Mediterraneo, senza paura di contaminare i generi”.

“Mediterraneo” sembra una parola chiave in questo album, perché è lì che paiono sfociare brani dalla bellezza antica che balla scalza tra le parole di una scrittura carsica e migrante. Essa scava a fondo nelle cose con uno stile che ha una semplicità e profondità sentenziosa e si abbiglia di suoni mescidati, che accolgono anche strumenti che rischiano di essere abbandonati o confinati in una tradizione musicale, come la zampogna a chiave del Sannio, la zampogna zoppa della Sabina e il piffero dell’Appennino.

La musica di Gazich mescola e spariglia i generi, dal blues alla musica klezmer, dal folk alla musica balcanica, dalle sonorità tipiche della tradizione cantautorale italiana a suoni mitteleuropei al di là degli scenari mediterranei, in un melting pot di suoni che mantiene un calore quasi “affettuoso” e un’eleganza armoniosa, oppure spande l’allegria ostinata di una fanfara. In questa geografia di suoni che viaggiano sulle vie del sale, alto e basso si confondono, abbattendo le pregiudiziali barricate talora interposte tra musica colta e musica popolare o leggera: una citazione di Bach può diventare una polka balcanica, mentre lo stesso violino di Gazich ricama fiori di campo, prende cadenze occitane o disegna talora quasi finezze regali.

In questo album non c’è Nord e Sud, mentre le periferie rompono ogni gerarchia per trovare cittadinanza musicale e farsi centro: così si attraversa l’Europa per raccontare parimenti l’incendio che a fine Ottocento distrusse il quartiere ebraico dove viveva un’ampia comunità sefardita a Salonicco, così come le “case di carta” che crollano in Italia durante i terremoti, mentre i “cuori dei vivi” restano “accanto ai cuori dei morti” e sembra vietato indagare a fondo nelle responsabilità umane (Collemaggio, registrata la prima volta nel 2010 per raccogliere fondi per cominciare il restauro della chiesa di Santa Maria degli Angeli a L’Aquila); ancora si narra la via del sale da Fontanigorda, alle spalle di Genova, fino agli Appenini, così come si narra ad esempio degli archivi di Colonia sommersi dall’acqua nel 2009 a causa di un irresponsabile progetto di costruzione di una metropolitana che ben poco avrebbe migliorato la vita degli abitanti.

Gli spunti per le canzoni (in una rete di citazioni e riferimenti a testi ebraici, ai vangeli, alla poetessa petrarchista Gaspara Stampa, alla “teologia negativa” di Giovanni della Croce, a Mantegna, ad Adelbert Von Chamisso, Montale, Caproni, Paul Eluard, al siciliano Bartolo Cattafi, omaggiato anche dalla voce del suo conterraneo Salvo Ruolo, ecc.) sono raffinati e affascinanti, ma non le hanno rese intellettualistiche, quanto piuttosto ricche di sfumature da cogliere pur in un quadro di ricercata essenzialità: le parole, con la loro precisione ermetica di vocaboli accuratamente scelti e isolati e con la loro immaginosità lineare, dal simbolismo quasi salmodico, sono semi da cui germogliano riflessioni.

Sembra accamparsi quasi un’epica del disastro, in cui gli uomini costruiscono e distruggono, costringendosi alla fuga, eppure resistono: il ventre di un’Europa “giardino dell’impero” sembra insterilito in un cimitero di cose; le “armature di metallo” si fanno scheletri senza vita.

Pioggia senza rumore
Da Padova ad Atene
Lava i suicidi per amore
Per amore della piccola industria


La pioggia lava morti
Mele, telefoni, finestre
Macerie di città
Maestose rovine del terziario


L’ultimo Cristo è giudicato
Il mondo muore anestetizzato
Muore senza un lamento
Il mondo ha ucciso la vita
(La vita non vive)

Anche le “vie-cattedrali dello shopping” all’alba sembrano a Gazich vie del sale, deserti in cui della civiltà umana sembrano rimanere solo i prezzi, non i valori; un progresso avido e spietato sembra avanzare senza curarsi di vittime e rovine; eppure tra archi, fiati, chitarre e piano la vita vive ancora. Non a caso le ultime parole del disco, che precedono la chiusura con Fontanigorda, prima composizione interamente strumentale, scritta per violino solo, inclusa in un album dell'artista bresciano, sono le seguenti:

L’ultimo albero è sradicato, questo violino scarnificato
Le puttane multinazionali ci volevano annientati
Ma io li ho presi questa notte, li ho chiusi dentro il mio violino
Questo violino, questo cuore batte forte
Salteranno i loro timpani, rimangeranno la sentenza
Noi correremo liberi e nudi, lontano da questa barricata

Accetta questi stracci e le smorfie dell’idiota
Queste macerie piene di grazia, questi avamposti
Le rovine del mio amore strappate alla notte
Mentre il ponte cade io ti canto la canzone
Visione, inno, gioia, filo d’erba
Perché un giorno un giorno possa rimarginarsi questa barricata.
(Una lettera da una barricata).

In quest’ottimo lavoro, in uscita il prossimo 29 settembre su etichetta fonoBisanzio con distruzione IRD, ma che vi presentiamo in anteprima streaming, merita infine una menzione speciale il singolo Storia dell’uomo che vendette la sua ombra, in cui la classica storia mefistofelica diventa un dialogo ambiguo con un alter-ego femminile, quello di una madre-matrigna che è incarnazione diabolica ed è affidata all’espressività densa di ombre materiche della voce oscura di Rita Lilith Oberti (Not Moving, Lilith and the Sinnersaints). Impressionante è anche la sua interpretazione nel video del regista Enrico Fappani (“un apocrifo bergmaniano nel mondo dei videoclip”, commenta Gazich), in cui madre e figlio si fronteggiano nell’atmosfera rituale di una sala da pranzo inquietante, finché alla scomparsa della madre sembrerà corrispondere la definitiva scomparsa dell’ombra, mentre una maschera nera pare ormai segnare la vittoria del Buio sul volto del protagonista.



Intervista di Marcello Matranga

Ascoltando diverse volte questo disco si colgono chiaramente alcuni significati/temi che lo contraddistinguono: il senso d’oblio e relatività che ci circonda nei confronti di qualunque cosa, partendo proprio dalla traccia che titola l’album, o come per il testo di La biblioteca sommersa, incentrata sulla catastrofica scomparsa della biblioteca di Colonia, eretta sopra la falda acquifera. Poi il forte senso mistico religioso come in Viaggio al centro della notte che ci parla di San Giovanni, collaboratore di Santa Teresa d'Avila nella fondazione dei Carmelitani Scalzi, Dottore della Chiesa, universalmente riconosciuto come mistico per eccellenza. Vuoi parlarci di come sia nata l’idea e “l’urgenza” di queste canzoni che compongono, caratterizzandolo, il tuo nuovo disco?

Caro Marcello, volevo parlare dell’Europa di oggi, fatta di vie dello shopping che si tramutano in vie del sale, di biblioteche che vengono ingoiate dalle acque, l’Europa di chi ha avuto latte vino e pane fino ad un certo giorno e poi scopre la fame, di madri e figli che non riescono a parlarsi, perché la violenza di questo mondo che vuole andare in guerra permea anche i rapporti interpersonali più stretti e familiari.

Sentivo crescere intorno a me e in me questa angosciosa sensazione, come dire, della vita che fatica a viversi. Perché la vita non vive? La mia bocca che si spalanca in questa domanda è stato il momento aurorale, l’inizio della consapevolezza: stavo lavorando ad un nuovo album!

Il mio album La via del sale descrive tutto ciò, ma non si compiace di ciò…  Comunque cerco una luce al centro della notte, cerco una luminosa dimensione d’amore, oltre l’opacità ottusa della violenza. Di questo appunto parla “Viaggio al centro della notte”, dedicata a San Giovanni della Croce. Forse più che una canzone mistica è una canzone d’amore: “L’amore sempre osa / Lei mi attende sola”.

I segnali esterni, tuttavia, sono di un nuovo diluvio: la Biblioteca di Colonia ingoiata dalle acque è metafora di quest’Europa dimentica di sé, che svende la sua memoria, la sua radice, la cultura della tolleranza e la cultura in generale. Ma non bisogna arretrare, non dobbiamo fermarci ai segnali esterni, dobbiamo tentare di vedere oltre il buio. È un passaggio stretto e ci responsabilizza, tutti. N.d.A: La Biblioteca di Colonia è stata ingoiata dalle acque per avidità. Come racconto nelle note alla canzone incluse nel libretto del CD: “Il tre marzo 2009 alle 13.58 l’edificio contenente gli archivi della città di Colonia, dove si conservavano documenti e testi attinenti alla storia della città tedesca, sprofondava nella terra e veniva ricoperto dalle acque. Colonia, in passato, era stata vittima, come è noto, di guerre e distruzioni, non ultimo il bombardamento a tappeto alla fine della Seconda Guerra Mondiale, ma nessuna aggressione aveva distrutto questo patrimonio, la memoria della città, che comprendeva anche incunaboli quattrocenteschi e codici medievali. Questa inedita e irreparabile distruzione è avvenuta per costruire una superflua metropolitana, che avrebbe permesso di muoversi da un lato all’altro della città, risparmiando otto minuti rispetto al tram esterno già in uso. La tragedia poteva essere evitata; forti sono le responsabilità umane. Sotto l’area degli archivi c’era una falda acquifera; erano state autorizzate quattro pompe per togliere l’acqua, ma ne furono collocate, per fare prima, ventitré, anche se ampie crepe nell’edificio venivano segnalate già un anno prima. Ma nulla fermò l’avidità e l’interesse del dio Progresso”.

L’ascolto di un disco come La Via Del Sale non è certo “semplice”. Vanno colti i passaggi musicali ed i testi richiedono di essere seguiti attentamente se si vuole provare e comprendere il senso generale del lavoro. Quanto tempo ha richiesto la scrittura e la preparazione di questo album?

Circa tre anni tra scrittura e studio di registrazione, ma in fondo una vita intera per far decantare idee e canzoni in me, per semplificarle. In fondo, non penso che sia un disco difficile a livello lessicale e musicale; è accogliente; è supportato da un’accattivante sezione ritmica; i temi musicali sono memorizzabili; le parole sono semplici e piane. Semmai può non essere semplice accettarle: “Se tu hai latte, vino e pane, io ti offro anche la fame”; “L’amore non è mai casa”; “La noia di chi vive / come non ci fosse morte”; “Piove sui suicidi per amore / per amore della piccola industria”; “Le puttane multinazionali ci volevano annientati”… e così via. È un album per chi vuole conoscere, non per chi vuole riconoscere musiche e parole.  Tento di sgretolare i luoghi comuni. Il mio lavoro artistico può piacere o non piacere, ma ho corso il rischio di dire qualche cosa di originale, attraverso le parole e la musica, in un mondo dove pochi davvero osano, possono o si consentono di dire alcunché. Con estrema umiltà, di questo sono fiero: di avere aperto bocca. Ho corso inoltre il rischio di edificare un FolkRock italiano, con melodie e strumenti nostri, come i nostri ma sconosciuti piffero dell’Appennino e zampogna del Sannio. Non ho fatto karaoke in italiano su preesistenti canzoni irlandesi o americane, come è malcostume di troppi. Avrei avuto gioco facile in ciò, dato che sull’argomento ho informazioni di prima mano, per il fatto che, da decenni, accompagno con il mio violino tanti maestri del songwriting statunitense! Ma la vita è troppo breve per giocare e rispetto troppo i miei ascoltatori e la mia persona per ingannarli e ingannarmi.

Non poteva essere certo voluta l’attinenza con la recente tragedia che ha colpito il centro Italia con un devastante terremoto, ma hai ripreso la canzone Collemaggio, (dedicata alla Basilica di Santa Maria di Collenmaggio), inclusa in un MiniCD, pubblicato nel 2010 a scopo benefico, a un anno dal terremoto a L’Aquila. So che è difficile parlare di certe sensazioni che hanno un ambito strettamente privato, ma cosa ti spinge a tornare su “questo argomento”?

A L’Aquila le cose sono un po’ cambiate, ma non abbastanza dal terremoto del 2009. Gravi errori iniziali e mancati investimenti nella direzione corretta hanno fatto sì che buona parte del centro storico della città sia ancor oggi negato ai suoi abitanti. Da quando ho composto la canzone, l’ho suonata pressoché ad ogni mio concerto. E voglio continuare a parlarne. Inoltre, il legame di Collemaggio con la tematica centrale dell’album è forte: le moderne vie del sale; luoghi che hanno perso il loro senso originario e faticano a recuperarne un altro: così è L’Aquila oggi. Infine: da anni è esaurito il MiniCD che conteneva la versione originale di Collemaggio. Questo è stato un modo per recuperarla, con un arrangiamento ancora più duro, da canzone di lotta e con il suono folk, legato al territorio abruzzese, della zampogna di Jacopo Pellicciotti.

Mi piace molto Storia dell’uomo che vendette la sua ombra, che trovo canzone dalla concezione molto legata a Nick Cave. Come mai hai coinvolto Rita Lilith Oberti, e come vi siete trovati a lavorare insieme?

L’idea per questa canzone mi accompagnava da anni. Finalmente mi sono deciso a scriverla. È un non dialogo madre e figlio, i quali si parlano, ma senza realmente parlarsi. Domande e non risposte. Una madre che è figura demoniaca e che, forse, solo verso la fine della canzone ridiventa madre attraverso le lacrime del figlio. Ho cercato a lungo la voce della madre, per anni, e mi ero ormai rassegnato a non trovarla. In Italia tutte tendono a cantare come Mina, il che non è un male, ovviamente, ma non era certo la voce adatta alla mia cupa, demoniaca madre. Avevo ormai registrato la canzone da solo, gestendola come una sorta di dialogo interiore, cioè facendo io entrambe le parti… Poi un giorno ho sentito la voce di Rita ed è stato subito chiaro che era lei la madre. La voce di Rita: viene dal punk; ha delle risonanze alla Marianne Faithfull, ma sa anche di bosco, è anche la voce dell’Appennino misterioso e misterico da cui proviene… Un amico mi ha dato il suo numero di telefono, l’ho chiamata e sono andato a casa sua. Rita attraversava un momento di riflessione, di allontanamento dalle scene, come ciclicamente accade ai veri artisti quando devono rinsanguare sé stessi e la loro arte. Ero, perciò, molto scettico sul fatto che potesse rompere questo momento di silenzio con la mia canzone. Ma fortunatamente mi sbagliavo: era un venerdì e la domenica successiva avevamo già registrato la parte di Rita. Dalla canzone è stato poi tratto un video, con la regia di Enrico Fappani, anticipato dal sito di Repubblica; ora reperibile sul mio canale YouTube.

Mi ha sorpreso l’ascolto di Fontanigorda, un pezzo solo strumentale, posto in chiusura del disco. Se non sbaglio è la prima volta che inserisci un pezzo di solo violino nei tuoi dischi. Da cosa deriva questa scelta?

La via del sale è un disco ricco di suoni, di strumenti, di musicisti, di voci. Mi fa piacere elencarli tutti, perché tutto sono stati decisivi per la riuscita dell’album. A partire dal mio storico collaboratore Marco Lamberti, all’elettrica e al bouzouki; Francesca Rossi, violoncello e voce; Alessandra Rossi, clarinetto, sax e voce; Paolo Costola, tecnico del suono e basso; Alberto Pavesi, batteria e percussioni; Stefano Valla al piffero dell’Appennino; Jacopo Pellicciotti alla zampogna; Pietro Campi alla voce e alla tromba; Salvo Ruolo, voce siciliana; Frank Deja, voce tedesca; Rita Lilith Oberti alla voce; io personalmente ho usato innanzitutto la mia voce, il pianoforte, la viola e, in fondo, poco il mio violino. Mi piaceva ridargli spazio in questo brano conclusivo, in cui ho cercato di valorizzare tutte le anime così diverse del mio strumento: da quella speculativa a quella folk, da quella ebraica a quella slava, eccetera… Vedo, inoltre, un futuro in cui mi dedicherò alla composizione di brani strumentali, prima di, eventualmente, ritornare alla amata forma-canzone.

Hai presentato il disco in anteprima assoluta al Maga a Gallarate il 12 settembre. Ci dai qualche anticipazione del concerto, di chi ti affiancherà sul palco, e dei programmi legati all’uscita di La Via Del Sale?

Porterò in tour La via del sale ovunque potrò nei prossimi mesi; il tour si aprirà il prossimo 8 ottobre allo storico FolkClub di Torino, per poi snodarsi per tutta Italia, con significative puntate all’estero. Mi esibirò con tutte le formazioni possibili: da quelle più scarne a quelle più ampie. L’album si presta a tante incarnazioni live. Ciò farà sì che il concerto sarà sempre diverso, imprevedibile. A parte il fatto che se Eraclito diceva che non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume, per me è impossibile fare due volte lo stesso concerto, anche qualora mi impegnassi davvero per farlo…

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