special
Franco Battiato Il nostro ricordo personale
"Lo sai che più si invecchia
Più affiorano ricordi lontanissimi
Come se fosse ieri"
("Mesopotamia")
Franco Battiato: il nostro ricordo e saluto personale con la nostra playlist e alcuni video.
“Latenti shock (shock addizionali, shock addizionali)Sveglia Kundalini (sveglia Kundalini, sveglia Kundalini)
Per scappare via dalla paranoia
Mescalina (come dopo un viaggio con la mescalina che finisce male)
Nel ritorno”
(Shock in My Town)
La playlist delle canzoni che abbiamo scelto per ricordare Battiato
Laura Bianchi - Cosa sarei stata senza Franco Battiato? Forse, proprio quell’adolescente di cui cantava Finardi in Musica ribelle, che pensa “qua da noi in fondo la musica non è male, quello che non reggo sono solo le parole...”.
Invece.
Invece, un’intera generazione ha scoperto Battiato sul finire dei Settanta, e con lui un mondo lontanissimo, René Guénon, alberghi a Tunisi, studenti di Damasco, vecchi curdi, il sufismo, ma anche la Sicilia ancestrale, il Vallone della Scammacca, e ricordi, sogni, metempsicosi, trasformazioni, alto e basso, popolare e colto, sperimentale e progressive; il tutto in una forma-canzone originale, che non dimenticava le avanguardie, ma si proiettava nel nuovo decennio con impaziente consapevolezza.
Come in L’era del cinghiale bianco, ritmo e elettronica, canto e melodia, vivificati da versi - immagine, pagine strappate da un diario che moltiplicava centinaia di esistenze, come in un gioco di specchi.
Perché Battiato questo era, in quel disco, e negli altri che seguirono: un moltiplicatore di vite, uno nessuno e centomila, un visionario che parlava alla nostra generazione con oscurità e immediatezza insieme; e non importava se non capivamo tutto, dei suoi testi. Bastava la potenza della musica, il contrasto fra la forza della chitarra elettrica e la morbidezza della voce, senza tempo, come quella di un medium, che evoca e incanta. Ad esempio, Prospettiva Nevski: una storia perfetta, eppure raccontata all’imperfetto, il tempo del ricordo, del sogno; nessuno mi toglie la convinzione che gli sia stata dettata da un’anima errante dell’antica San Pietroburgo dopo la Rivoluzione d’ottobre.
Oppure, tutte le sette tracce de La voce del padrone, per cui l’aggettivo epocale non si spreca: trenta minuti di musica leggerissima, ma solo in apparenza, che rivela uno studio sempre più profondo dell’animo umano, e la ricerca di un’armonia fra elettronica e acustica, presagio di una dedizione totale alla musica classica. Gli uccelli uno dei vertici, con la coda orchestrale che ci prende e ci porta in volo con sé.
A quel punto, Battiato non è più solo compagno della nostra generazione, ma ricapitola un intero secolo, in bilico tra le nostalgie dei suoi inizi e i sogni del Duemila sempre più vicino, e si lega a doppio filo ai ricordi privati di una vita, concedendosi a una popolarità diffusa, che sorprendeva tanto noi quanto lui. Nel 1994, finalmente, l’ho ascoltato in un concerto in un teatro, accompagnato da un ensemble di archi, con due tastiere elettroniche; e Il re del mondo, tornato dal 1979 a illuminarsi di luce propria. Seduto su un tappeto orientale, in un completo grigio scuro come un gentiluomo siculo di altri tempi, comunicava un carisma indiscutibile, e ci conduceva con mano sicura attraverso suoni che ci sembravano esistere da sempre dentro di noi.
E ora, che sta attraversando il Bardo, sento un’immensa riconoscenza per uno degli artisti italiani più completi che abbia avuto il privilegio di incrociare nel mio transito terrestre.
Veronica Eracleo - Su Battiato si è detto tutto e il contrario di tutto, da anni tutti lo chiamavano maestro e ne cantavano le lodi chi con le parole, chi con cover. Ma forse non tutti sanno che tra gli aneddoti più divertenti che lui stesso raccontava di sé – a me è capitato di ascoltarli in prima persona grazie ad un incontro dal vivo alla Feltrinelli di Piazza Piemonte a Milano qualche anno fa – risaliva ai suoi primi concerti, a quando il pubblico lo fischiava perché non capiva la sua musica, lo trovava inascoltabile e noioso. Ho sempre pensato che in pochi avrebbero raccontato un aneddoto del genere su di sé, eppure lui ne parlava divertito, quasi fiero, bandiera di quella libertà che ha sempre dimostrato di avere ed essere. Una libertà che gli ha permesso di fare quello che gli passava per la testa – a ragione – e ad esprimersi seguendo il suo istinto, senza considerare il giudizio altrui. Coraggio che pochi artisti hanno avuto ed hanno.
Le prime due canzoni con cui ho scelto di ricordare Battiato rappresentano secondo me due concetti a lui molto cari: l’essere e la reincarnazione. Siamo energia e alla fine torneremo ad esserlo. Non a caso fanno parte del primo e ultimo disco. La cover di Sergio Endrigo invece fa parte di una trilogia di album a cui sono personalmente molto legata.
- Energia, dall’album Fetus;
- Torneremo ancora, dall’album omonimo;
- Te lo leggo negli occhi, dall’album Fleurs.
Ambrosia J. S. Imbornone - Il mio ricordo di Battiato si intreccia indissolubilmente con i miei ricordi. Anagraficamente per me Battiato c’è sempre stato: è destabilizzante pensare che ora siamo orfani della sua grazia, della sua inesausta attività di ricerca, della sua cultura e raffinatezza, anche se non lo saremo mai della musica, in cui non riesco a non pensarlo vivo ed eterno, come un monumento, come una componente fondamentale del nostro patrimonio storico e artistico. Guardandomi indietro, rintraccio le sue note intrecciate alla mia vita fin dall’infanzia: avevo qualche mese di vita quando Alice vinse a Sanremo 1981 con Per Elisa, canzone composta con Battiato e Giusto Pio, che non posso ricordare live sul palco dell’Ariston, ma che ebbi modo di ascoltare qualche anno dopo e amavo molto, senza coglierne il significato reale. Avevo circa 12-13 anni nel 1993, quando, su una base contenuta in una compilation di Fiorello, cercavo di cantare al “Canta tu” le leggendarie strofe di Centro di gravità permanente, fiera di imparare espressioni eleganti e immaginifiche come “Gesuiti euclidei vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori della dinastia dei Ming”. Era il 2003 quando lo vidi in uno splendido concerto nella mia città, Barletta, durante il tour che fu poi eternato nell’album live Last Summer Dance, e notai come il pubblico, che immaginavi e ti sembrava colto, pacato e riflessivo, poi si scatenasse gioiosamente, quasi ringiovanendo istantaneamente, durante il medley composto da Bandiera bianca, Segnali di vita, Sentimento nuevo e Gli uccelli, mentre cantava in coro e ballava sulle note di Cuccuruccuccu, oppure di Centro di gravità permanente. E il cantautore era felice, quando lo osservava, abbozzando un sorriso soddisfatto, o persino qualche goffo passo di danza. Era il 2011 quando avrei avuto modo di parlargli e non colsi l’occasione, perché alla mente non mi venivano che parole di ammirazione scontate e banali: Battiato stava per partecipare a un convegno del Medimex a Bari, tavola rotonda intitolata Chi ha paura della musica?, che prevedeva tra gli ospiti anche Vasco Brondi, Caparezza, Pierpaolo Capovilla, Tommaso Colliva e Daniele Silvestri (report del Medimex 2011 e dell’incontro). Il maestro era lì, camminava davanti a me, ma, io, imbarazzatissima, non sapendo appunto cosa dirgli, “colpevolmente” lo sorpassai per andare a prendere posto. Il cantautore si raccontò mostrando ironia e fierezza per le sue scelte; passò dal narrare di quando al Parco Lambro suonò alle 2 di notte e vide pian piano però gli spettatori uscire uno ad uno dai sacchi a pelo, al raccontare della sua segreteria telefonica con una composizione di Georg Friedrich Händel, che incantava pure chi la scambiava per un suo pezzo, fino a rivendicare con decisione che, in qualunque contesto si suoni, si resta sempre quello che si è. Selezionare solo tre suoi pezzi non è facile, ma scelgo questi brani:
- Up Patriots to Arms (1980), uno dei primi brani di successo del cantautore, manifesto che smonta ipocrisie e luoghi comuni; si pensi ad es. il dissacrante e provocatorio “Le barricate in piazza le fai per conto della borghesia”, quasi in linea con le discusse e discutibili posizioni di Pasolini nel PCI ai giovani!, in cui il poeta nel 1968, all’indomani dei fatti di Valle Giulia, si schierava con i poliziotti, “figli di poveri”, e non con i giovani borghesi “figli di papà”. Questa canzone, al contempo elegante e orecchiabile, era anche un coraggioso atto di accusa nei confronti del superficiale carattere scenografico della musica dell’epoca e contro i direttori artistici passatisti, da mandare in pensione come “gli addetti alla cultura”;
- Caffè de la Paix (1993), di cui mi incantava il video, con protagonista Antonia Dell’Atte e le favolose immagini di Sidi Bou Said in Tunisia (lo trasmettevano spesso in un programma con le classifiche settimanali dei dischi e lo associo pure, chissà perché, ai preparativi di qualche festa di compleanno in casa);
- infine il singolo, ballabile, ma anche al vetriolo, Inneres Auge (2009), inno synth-pop, quasi dance, allo sguardo interiore, che si apre solo “con il tempo” e la “pazienza”; si tratta del “terzo occhio”, che consente di vedere oltre le apparenze e la percezione ordinaria, fino a cogliere l’aura che circonda gli individui, che in alcuni casi è nera. È il caso dei politici più squallidi, corrotti e senza scrupoli:
Dove regna soltanto il denaro?
La giustizia non è altro che una pubblica merce
Di cosa vivrebbero
Ciarlatani e truffatori
Se non avessero moneta sonante da gettare come ami fra la gente”.
Arianna Marsico - Tre canzoni per ricordare Franco Battiato non possono bastare. Perché alla fine ti accorgi che ti ha accompagnato tutta la vita a prescindere da quando ne hai avuto consapevolezza. Il mio primo ascolto consapevole risale a L’imboscata (1996), però poi piano piano ti viene in mente quante altre volte quel suo suono sempre nuovo ti ha accarezzato. Perché Franco Battiato non è stato solo un grandissimo cantautore, è stato un ricercatore, un filosofo, un uomo dalla voglia di conoscenza insaziabile. La parola Maestro raramente è ben spesa come nel suo caso. E non perché amasse essere osannato acriticamente, ma perché il suo vero insegnamento è rappresentato dall’attitudine a non fermarsi mai, a inventare sempre qualcosa, che siano nuovi arrangiamenti, nuovi accostamenti di parole o altro, a essere sempre grato ai musicisti che lo circondavano.
L’irrequietezza de L’animale “che si prende tutto, anche il caffè” e vorrebbe a volte “un po' di leggerezza e di stupidità” mi accompagna da tantissimo, non saprei nemmeno individuare un momento preciso da associarle.
“E per un istante ritorna la voglia di vivere a un’altra velocità”, I treni di Tozeur portano sempre al desiderio di tornare a quando si è vissuto a un’altra velocità (ma è realmente successo, o è tutta un’illusione?) ogni qualvolta arrivi un momento di malinconia, di stanchezza davanti alla quotidianità, quando il dolore di squassa. Mi fa pensare a quando si ritorna in luoghi dell’infanzia dopo tanto tempo, eppure tutti si ricordano di me “delle mie abitudini”.
“L’odore delle case dei vecchi” è ciò che Jep Gambardella ama maggiormente. Stranizza d'amuri mi ha sempre riportata alla Sicilia che non ho vissuto della giovinezza di mia nonna. A quel sapore di approdo sicuro che si ha quando si varca la porta di casa dei nonni, alla brezza leggera del loro respiro.
E qui posso riconfermare che tre canzoni sono pochissime, perché per una che ne scrivo me ne vengono in mente altre tre, per un motivo o per un altro, per la sperimentazione (penso ai brani di Clic), per un ricordo legato ai tre concerti a cui ho avuto la fortuna di assistere, per una suggestione, per un libro che mi hanno suggerito, per un pezzo di storia della musica che mi hanno fatto scoprire (penso alle gemme nei Fleurs).
Mi permetto di salutarlo con dei versi della sua amata Ruby Tuesday, che ha splendidamente omaggiato, sperando sia solo un arrivederci.
“Goodbye Ruby Tuesday
Who could hang a name on you?
When you change with every new day
Still I'm gonna miss you”.
(speciale a cura di Ambrosia J. S. Imbornone)