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Paul McCartney Paul McCartney apre la leg europea del Got Back Tour a Parigi: due giorni vissuti emotivamente
Silvano Terranova, Palermo.
Che il concerto parigino del 4 dicembre sarebbe stato un autentico colpo al cuore l’ho capito dalle prime note del brano iniziale. Mentre in testa, infatti, risuonava mentalmente l’accordo iniziale di “A Hard Day's Night”, canzone che quasi sempre apre i concerti del Macca, la voce del buon Paul, leggermente incrinata dagli anni, ma sempre evocativa, ha sparigliato le carte:
“Can't buy me love, love
Can't buy me love, love.
I'll buy you a diamond ring my friend if it makes you feel alright
I'll get you anything my friend if it makes you feel alright
'Cause I don't care too much for money
But money can't buy me love.”
Se credessi nel magico, potrei pensare che non sia un caso che il mio primo concerto di Paul McCartney, inseguito per anni, quasi raggiunto nel 2020, incredibilmente perso a causa della pandemia e finalmente afferrato in una fredda serata parigina del 2024, abbia preso il via proprio da “Can’t Buy Me Love”, lato A del primo 45 giri dei Beatles che ricevetti in regalo il giorno del mio compleanno di tanti, troppi anni fa.
Intendiamoci, non sono così anziano da avere vissuto consapevolmente quei favolosi momenti che hanno visto quattro ragazzotti di Liverpool consegnare al mondo una manciata di capolavori che hanno cambiato per sempre la storia del pop e del rock e, perché no, inventato l’heavy metal (Helter Skelter non è forse il primo pezzo metal della storia?) però, fino a quel momento, per me i Beatles erano stati solo un nome e qualche canzone famosa ascoltata distrattamente alla radio: l’allegria di Ob-la-di Ob-la-da, un sottomarino giallo o quella canzone orecchiabile nella quale l’inglese si mescolava abilmente al francese. Ma diavolo, quella canzone era un’altra roba: era puro rock ‘n’ roll, un genere che a casa mia non aveva mai davvero trovato posto perché troppo distante, sia dai gusti di mio padre (per ovvie ragioni anagrafiche) sia da quelli di mia sorella, più legata al mondo dei cantautori italiani e americani. “Can’t Buy Me Love”, che fu la chiave che mi fece entrare nel loro mondo, il mio rito di iniziazione alla musica dei Beatles e, in definitiva, al rock che ancora oggi ascolto, stava dando il via al concerto che sognavo da anni! Cosa chiedere di più?
Se credessi nel magico, dicevo, potrei pensare che le divinità del rock, con quella canzone, abbiano voluto farmi un regalo e dirmi che tutto è tornato laddove è iniziato, in quella stanzetta nella quale, il giorno del suo dodicesimo compleanno, un bambino ha scoperto quella musica che lo ha accompagnato per il resto della vita. E, se ancora credessi nel magico, potrei pensare che quelle stesse divinità del rock abbiano voluto rendere ancora più indimenticabile quel regalo, aggiungendo il volto estasiato di mia figlia che, durante l’esecuzione di “In Spite Of All The Danger”, mi sussurrava all’orecchio che quella era la prima canzone che aveva imparato a suonare con la chitarra.
Però, a pensarci bene, cosa è tutto questo, se non magia?
Angela Del Rosso, Pistoia
"And in the end,
The love you take
Is equal to the love you make”
Le parole finali di Abbey Road, che sono state le parole finali cantate da Paul McCartney al concerto di Parigi, sono la perfetta sintesi di ciò che è stato il concerto, anzi, l’epifania a cui il pubblico, stranito fra gioia e lacrime, ha assistito a La Défense Arena a Parigi.
Paul si è manifestato nelle sue 82 primavere e nei suoi oltre 60 anni di carriera e io, pur essendo passato qualche giorno dal concerto, ancora non realizzo bene ciò che ho vissuto.
Paul sembra vivere in una dimensione temporale sua propria; è, nel contempo, giovane e saggio, anziano e lieve, ironico e autorevole, e tutti noi presenti abbiamo goduto di questa sua dimensione privilegiata durante il tempo in cui è stato sul palco.
Paul ha mille vite, e in queste mille vite ha scritto e scrive canzoni mirabolanti con i Beatles (il motivo principale per cui lo amo), con i Wings, e da solista.
Paul in concerto fa molte canzoni dei Beatles, presenti anche nei filmati proiettati sui maxi-schermi, che mostrano il gruppo in studio, in concerto, e fra la folla. A questo proposito, veri colpi al cuore sono state Now and Then, elaborata da un demo realizzato da John Lennon, e Something, omaggio a George Harrison.
Paul è instancabile, suona per quasi tre ore con una band straordinaria, passando dal leggendario basso Hofner alla chitarra elettrica, al pianoforte, alla chitarra acustica.
Paul alterna Blackbird in cui sovrasta il pubblico, e Live And Let Die, in cui, letteralmente, lo incendia, passa dal ritmo di Band on the run, alla dolcezza di Maybe i’m amazed, facendo vivere al pubblico emozioni contrastanti, eppure armoniose.
Paul in questo è un mago, riesce a evocare il suo lunghissimo presente, ma non ci si adagia. E, quando la commozione immancabilmente arriva, riesce a esorcizzarla con sguardi sorridenti, mosse spiritose e con buffi ringraziamenti, spesso in un francese un po’ stentato.
Paul è un elegante saggio bambino che è riuscito ad accompagnare per mano nel suo Magical Mystery Tour una folla di 40.000 persone, travolta e incantata da quella sua insostenibile e inimitabile leggerezza che lo fa così tanto amare.
Quindi, concordo con te, carissimo Paul, che “And in the end, The love you take Is equal to the love you make”...
Lorenzo Semprini, Rimini
Cerchi i 45 giri dei Beatles di tua mamma, prendi tuo figlio di 8 anni e lo porti a Parigi per annodare quel filo invisibile che lega vite e generazioni diverse. Entri alla Défense Arena, che di arena non ha proprio nulla, ma è come uno stadio al chiuso; la delusione un po' c'è, perché ti aspettavi qualcosa di più intimo, ma non importa. Vedi davvero persone di tutte le età, tante magliette dei Beatles: c'è chi è vestito da Sgt Pepper e chi è in giacca e cravatta post ufficio. Noi ci sistemiamo in fondo alla platea per avere un po' di spazio, siamo lontanissimi dal palco, ma questo non influirà assolutamente dall'emozione che arriverà "fino all'ultima fila". Eccolo lì, in piedi, sorridente, 82 anni suonati, e ok anche se la voce non è più quella di un tempo, perché il cuore e l'anima sono gli stessi, una lunga corsa di due ore e 40 minuti, con pochissime soste, un viaggio incredibile dentro la storia, guidati da chi la storia l'ha scritta e fatta davvero. Permettetemi di dire che è un miracolo quello a cui stiamo assistendo: dopo più di 60 anni di carriera anziché ritirarsi nelle stanze dorate della celebrità, Mr, Paul McCartney è lì su quel palco, a sudare e portarci in posti che non avremmo nemmeno immaginato che esistessero. C'è la commovente "Here today" per John Lennon, la sferzata di "Drive my car", una "Michelle" a sorpresa (e molto parigina), una "Blackbird" emozionante e una mitragliata di brani incredibili per il finale. Credo che esista solo un musicista al mondo, o forse due (Bob Dylan), che si può permettere di lasciare fuori dalla setlist brani del calibro di "Yesterday", "Long and winding road", "Back in USSR", "A day in the life" o "Across the universe". Il concerto si conclude con la trilogia spaccacuore di "Golden Slumbers/Carry the weight/ In the end", faccio scendere mio figlio dalle mie stanche spalle che lo hanno tenuto in alto per tutto il concerto, mi giro, vedo un padre con i propri figli in lacrime, e mi viene da dire che ne è valsa la pena. Non solo essere qui a Parigi, non solo essere a un concerto, non solo averci portato chi ami, non solo aver speso soldi, tempo ed energie. È valsa la pena di fare questo "viaggio" lunghissimo con chi ha saputo tracciare una strada che molti hanno percorso e che ancora percorreranno per molto.
Giovanna Mentasti, Bologna
Non sono cresciuta con i Beatles, non nel senso canonico del termine. Quando sono nata, John Lennon era morto già da vent’anni, e non ho memoria della scomparsa di George Harrison, un anno dopo. Non ho mai comprato un loro disco da adolescente mettendomi in coda fuori da un negozio, né ho mai sentito mia nonna canticchiare Michelle, che a quanto mi è stato raccontato amava molto. Ma ricordo di avere amato le animazioni sgargianti del film “Yellow Submarine”, il fatto che nella colonna sonora del mio film di fantasia preferito, “Il Gatto nel Cappello”, ci fosse la loro Getting Better, e quella volta che alle elementari avevo cercato su internet e stampato da sola il testo di Eleanor Rigby, pur non sapendo una parola di inglese.
Ricordo i loro vinili nell’armadio di casa e mia mamma che alzava il volume quando passavano in radio. E mi ricordo ancora mia mamma, qualche mese fa, chiedermi se volessi andare con lei a Parigi a sentire Paul McCartney. Ora anche quel concerto è diventato un bellissimo ricordo, il punto d’arrivo di una vita di ammirazione postuma verso uno dei gruppi più immensi di tutti i tempi, che ho sempre sentito come appartenente a un’era di cui non ho fatto parte, ma che nonostante ciò è stato capace di raggiungermi e parlarmi. Perché, una volta che si è sotto allo stesso tetto di una gigantesca arena, mentre 40.000 voci cantano il ritornello di Hey Jude per quella che potrebbe essere la ventesima volta di mille, non si può fare a meno di pensare di essere ancora in tempo per essere nel posto giusto al momento giusto.
FOTO DI NELLO CORRADO E ANGELA DEL ROSSO