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Sanremo 2021 Una poltrona per tre: la finale
Cambio di guardia sulla poltrona dei nostri prodi, che, ben forniti di caffeina, hanno resistito al sonno anche per seguire l'ultima puntata del festival: ai collaudati commentatori Barbara Bottoli e Paolo Ronchetti si affianca anche un'altra storica penna della nostra testata, Arianna Marsico. Ormai un divano, per bilanci e commenti finali.
Barbara BottoliLess is more
Termina l'edizione 71 del Festival della Canzone Italiana, anticipata dalle consuete polemiche e conclusasi con polemiche, ma è il gioco di Sanremo, e in questo 2021 era scontato che il tutto fosse ingigantito … soprattutto i tempi.
Iniziato con la discussione “pubblico non pubblico” il conduttore poteva avere una grande occasione: dare rilievo alla musica, eliminando super-ospiti, siparietti, interviste ipocrite con tematiche dell'ultimo minuto, e quando è stata resa nota la lista del cast sembrava che quella potesse essere la direzione, scegliendo artisti conosciuti al pubblico “meno commerciale”, insomma i così detti “indie”.
“Se bastasse un concerto per far nascere un fiore
tra i palazzi distrutti dalle bombe nemiche
nel nome di un Dio
che non viene fuori col temporale
Il maestro è andato via
metti un po' di musica leggera
perchè ho voglia di niente
anzi leggerissima”
Le parole di Musica leggerissima di Colapesce e Dimartino potevano essere la ricetta per questa kermesse, la richiesta era chiara: dopo che in questi ultimi 12 mesi le vite delle persone sono cambiate, la necessità era di un'emozione semplice che è stata sostituita da un tour de force per giungere alla proclamazione del vincitore di questa edizione sanremese.
Non è mancata la sfida tra le giovani proposte, presentando un doppio quartetto di puzzle di poco impatto e la vittoria di Gaudiano con Polvere da sparo, che non ha permesso di affezionarsi a qualcuno, relegando la novità in una ricerca non soddisfatta.
Less is more
Le varie citazioni dei protocolli anti-Covid, l'assenza del pubblico in sala ha sminuito l'importanza sia della musica sia del pubblico a casa, che tra un caffè e un pisolino ha cercato di non sentirsi preda dell'ennesima zona rossa; eh si carissimo Amadeus hai peccato di egocentrismo, pensando di bissare il successo dell'anno precedente, pensando che col coprifuoco si potesse iniziare alle ore 22”, invece no: dopo un anno vissuto in pigiama, isolati, tra smart-working, videochiamate e device come prolungamento degli arti, c'era bisogno di altro, c'era il bisogno di emozionarsi positivamente, c'era bisogno di ritmo, c'era bisogno di qualcosa di bello da ricordare per ricaricarci.
Chiara l'incapacità di scegliere, propinando “la qualunque” come se il pubblico potesse moltiplicarsi, ma evidente che per spiccare tra la marea di persone che si sono alternate sul palco c'è stato un bisogno esponenziale di travestimenti, arrivando alla serata del sabato sera alla ricerca di una sicura normalità, senza tante filosofie su cosa sia la normalità o meno, perché l'unica cosa certa era che questo Festival doveva farci stare bene e non farci sentire ancora ostaggi, ci serviva l'emozione, ci serviva un altro Fai rumore che ci facesse accavallare le viscere, che ci facesse venire la pelle d'oca e che ci facesse credere che SI PUO' FARE.
“Questa è l’Italia del futuro, un paese di musichette mentre fuori c’è la morte“
Willie Peyote, vincitore del Premio Mia Martini ha fornito l'istantanea della classifica, ci ha ricordato che se Ornella Vanoni è storia, il talent è passato che non siamo un popolo di nostalgici, incapaci di aprire la mente, ma sappiamo ancora riconoscere un professionista da una caricatura in autotune.
Rincuorati dai “premi speciali” e delusi dal podio dei messaggini, anche in questo 2021 ci siamo bruciati la possibilità di darci tempo per ascoltare davvero, dimostrando che Sanremo è una cartina al tornasole della società, nella quale l'orchestra diventa un pubblico non valorizzato e che un calciatore può riuscire a comunicare più di una giornalista che cerca lo scoop nell'affermazione di un “Tenco che giocava con le pistole”, che un calciatore può farci sorridere, ma anche farci riflettere anche solo un secondo con una frase, forse scontata, forse creata ad hoc, che “il fallimento è successo” e che davvero bastano pochi minuti sul palco per farsi notare, se si ha credibilità.
Invece tra “sesso e ibuprofene”, “analgesici”, “norgestrel in fiale” ci siamo ricordati ogni secondo della pandemia, a quasi ogni esibizione siamo stati posti davanti al conformismo, anche di chi nella propria eccezionalità avrebbe potuto volare alto: Madame che ha affinato la propria voce, La Rappresentante di Lista che ha scelto la via più pop, i Coma_Cose che si sono adeguati al siparietto metaforico, mentre al contrario Ermal Meta si cuce addosso ogni brano, proprio o cover, Willie Peyote mantiene una serietà, quasi referenziale, nei confronti del palco, anche accanto a Bersani, Bugo ha mostrato che siamo tutti un po' lui, mostrando la libertà, insieme a Colapesce e Dimartino che si sono chiaramente divertiti e saranno tra gli ascolti delle prossime settimane.
“In base al tuo pubblico scegliti un bel personaggio
l'Italia è una grande sit com
Sta roba che cinque anni fa era già vecchia ora sembra avanguardia
e la chiamano it-pop.
Le major ti fanno un contratto se azzecchi un balletto
e fai boom su TikTok.
….
Non si vendono più dischi tanto c'è Spotify”
Mai dire mai (la locura) ha descritto questa edizione di Sanremo, ha descritto il mercato discografico italiano, ma descrive una società asociale e social; non vuol dire essere polemici, vuol dire che la musica è altro, non è un like, non è una visualizzazione, non è una pubblicità di una casa di moda, la musica è emozione, è quella botta nella pancia che ti fa stare bene, che anche a distanza di anni smuove la malinconia bella, è un testo che ti comunica qualcosa, la musica è immedesimazione e ci deve sopravvivere.
Il personale legame con questa manifestazione resta, aumentando la speranza della svolta, facendo crescere la necessità di ascoltare le novità non costruite, le voci non assemblate e di poter far coincidere la necessità di espressione con quella di ascolto. La straordinarietà dell'edizione del 2021 è stata sprecata, ci resterà il ricordo di un gruppo dalle tutine trasparenti senza distinzione, ci resteranno le lacrime dell'emozione che non escono dai volti mascherati, ci resteranno le tazzine di caffè accanto al divano e la possibilità di poter decidere cosa ascoltare, almeno fino a febbraio del 2022 quando ci ricaricheremo di aspettative e in poche serate ci porranno davanti al se e come siamo cambiati.
Arianna Marsico
Dopo l’intervento delle Teste di Cuoio gli ostaggi sono stati liberati. È quello che può dirsi di artisti, tecnici e spettatori dopo la fine della 71esima edizione del Festival di Sanremo. Un Festival in cui la musica avrebbe dovuto essere indiscussa protagonista, che avrebbe dovuto essere focalizzato sugli artisti in gara dato che in questo 2021 di zone a colori e uniforme paura del futuro sarà davvero complicato capire se con mille cautele lo spettacolo dal vivo potrà riprendere ad avere luogo e quindi possano avere una adeguata promozione. E invece no, ecco che la conduzione strabordante di Amadeus e Fiorello si inventa ogni escamotage possibile per finire tardissimo, sfinendo i tecnici (ridotti all’osso come numero a causa della pandemia, da qui i numerosi problemi a microfoni e mix), facendo esibire artisti in orari in cui li avranno visti solo gli insonni e gli addetti ai lavori, inserendo ospiti e siparietti talmente imbarazzanti delle volte che ti verrebbe voglia di far loro tatuare sulla fronte il “Less is more” di Mies Van Der Rohe. E il bellissimo e toccante messaggio de Lo Stato Sociale alla fine della cover di Non è per sempre (Afterhours) con Pannofino che ricorda che ben diecimila persone non lavorano da un anno passa dopo l’una di notte.
La musica trattata da ancella quest’anno è ancora più un peccato non solo per la sofferenza del settore ma anche perché dal 2018, anno in cui Claudio Baglioni cominciò a aprire le porte del festival a un buon numero di musicisti della cosiddetta scena indipendente, si era trovato per la prima volta un equilibrio da manuale Cencelli sui partecipanti. Il giusto mix tra tradizione del Festival, che ricordatevelo è pur sempre nazionàl-popolare, nomi dai talent, trap e derivati e indipendenti. Con un livello qualitativo mediamente alto a prescindere dai gusti personali, anche nella serata delle cover. Se Renga e Aiello forse potevano esserci risparmiati che dire invece dell’immarcescibile eleganza di Orietta Berti (che con le sue gaffes nelle interviste ci ha regalato tanti sorrisi) dell’allegria degli Extraliscio con Davide Toffolo e della potenza della Rappresentante di Lista? Delle trovate de Lo Stato Sociale e di Max Gazzè? O delle staffilate di Willie Peyote (meritato Premio della Critica), della “musica leggerissima” di Colapesce e Di Martino, dello stato di grazia di Ermal Meta?
Per non parlare di una sorpresa come Madame, che a diciannove anni tiene il palco con una sicurezza non comune (Fedez potrebbe prendere appunti).
Trainati dal televoto arrivano tra i primi tre Francesca Michielin e Fedez, con quest’ultimo che ha oggettivamente penalizzato una Chiamami per nome con un certo potenziale. Ma a spuntarla sono i Maneskin (o Naziskin, per citare la gaffe della Berti) con Zitti e buoni. Una canzone innovativa per i canoni dell’Ariston, ma anche se non originalissima ben eseguita e che ti si ficca in testa. Ma al di là della canzone, su quanto possa essere rock e alternativa o derivativa, la vittoria dei Maneskin fa succedere un qualcosa di inaspettato. Finalmente Damiano e i suoi soldali mostrano delle emozioni. All’annuncio della vittoria scoppiano a piangere, suonano abbracciandosi di continuo, come solo a vent’anni può essere meraviglioso fare. Scompaiono quelle espressioni finto – vissute e costruite dietro un look troppo elaborato, si crepa quella patina di plastica che fino ad ora me li ha sempre fatti apprezzare fino a un certo punto. E in questa crepa si potrebbe vedere il futuro della band, con quell’autenticità che fino ad ora era latitante. E magari intravedere una nuova strada per il rock e dintorni in TV (che piaccia o no è pur sempre un mezzo di promozione importantissimo), in modo che non debba per forza ammantarsi dei lustrini dei talent. In modo che la musica possa essere diffusa indipendente da questioni di look.
"Non sarà per sempre. Credeteci, i nostri fiori non sono ancora rovinati”.
Paolo Ronchetti
Difficile iniziare a ragionare al di fuori del contesto in cui tutto si è svolto. In questo senso un po’ di clemenza rispetto ad Amadeus e Fiorello e a tutto questo carrozzone scintillante non si può non avere. Centinaia e centinaia di professionisti che per giorni e giorni hanno lavorato anche più degli anni scorsi con i pesanti vincoli legati a tutte le procedure anti-covid. Certo, in alcuni momenti emergeva la sin troppo ostentata leggerezza culturale dei due (se sei sul palco di Sanremo non puoi non sapere che differenza c’è tra una viola e un violoncello e sbagliare per tre volte a nominare gli strumenti; non puoi preparare sketch e battute troppo da villaggio turistico); in altri momenti invece la sintonia di lunga data dava possibilità di un divertimento tanto semplice quanto efficace perché assolutamente naturale. Certo c’era sempre la sensazione di una minestra troppo allungata a favore degli sponsor piuttosto che dello spettacolo o, ancor meno, delle canzoni. Ma è così da anni purtroppo.
Le canzoni! Ecco ciò che mi interessa di più di un Sanremo e partiamo perciò da qualche mese fa. I nomi proposti erano francamente “strani”. Qualche nome ormai classico o uscito dai talent come Annalisa, la Michelin, Renga, Gaia, Malika, Noemi, Max Gazzè, Arisa, gli stessi Maneskin; un big delle vendite e dei social (Fedez); una sola vecchia gloria come la Berti. Poi c’erano Bugo, Colapesce & Dimartino, Coma_Cose, Extraliscio, Ermal Meta, Fulminacci, Ghemon, La Rappresentante Di Lista, Lo Stato Sociale, Madame, Willie Peyote. Tutti nomi che sono o erano ai margini del mercato perché provenienti da etichette indipendenti e da scene più o meno alternative. Nomi sconosciuti e senza appeal per il pubblico sanremese o per qualsiasi prima serata tv. Ma allora perché scegliere questi nomi? Semplice: perché Sanremo non è più uno sviluppatore di vendite come banalmente si può credere (ormai le vendite sono inesistenti e non sono i pochi centesimi di guadagno dati da Spotify a far ricco qualcuno). Sanremo è sviluppatore potente di date di concerti, lo è sempre stato. Attenzione: quando si parla delle date sviluppate da Sanremo non dovete pensare alle date negli stadi o a tour nei palazzetti o nei locali. Pensate alle feste, alle sagre, alle feste patronali o di paese diffuse in tutta Italia e soprattutto nel centro sud; Pensate a inviti lautamente pagati nei locali “di tendenza” o nelle discoteche magari senza neanche cantare in playback. Questo è, da sempre, il destino del mercato post Sanremo. O meglio: questo era il destino del sistema Sanremo oggi annullato per l’impossibilità di pensare a questo tipo di mercato per questa estate Covid. Nessun big e nessuna casa discografica poteva o voleva rischiare e spendere così tanti soldi senza poter raccogliere nulla. Meglio promuovere, o presentare al pubblico, nomi emergenti e amati da piccole nicchie. Ed eccoci a martedì sera.
Chiaro che l’italiano medio si sia trovato, soprattutto nelle prime serate, davanti a cose che non conosceva e a cui non era interessato. Il risultato è stato visibile nello share risalito pian piano sino alla serata finale ed è visibile nella classifica finale: una band metal uscita dai talent; il re dei social; un cantante (e straordinario autore) che negli anni si è costruito credibilità e rispetto anche col pubblico generalista. Il resto, le novità - magari anche molto valide e orecchiabili - spazzate via. Ma a qualcuno di loro, non necessariamente ai più bravi, questo servirà nel futuro.
Ma quello che ho amato in questo Sanremo non è stato poco. Gli Extraliscio e il loro progetto culturale e divertente sopra a tutto: tra pop, liscio, rumorismo alla Arto Lindsey e musica indie. La Rappresentante di Lista ormai destinata, dopo l’abbandono di Garrincha a favore della Universal, a fare il meritato grande salto mantenendo una solida e invidiabile credibilità artistica con una gioia e precisione incredibili in ogni serata; Madame, che amo e che col passaggio a Sugar vedo lanciata nell’iperspazio delle produzioni televisive: futura padrona di casa del varietà in prima serata (e ne piango già la freschezza pur amandola ancora); la passione travolgente di Bugo; la sicurezza di Willie Peyote. Un gradino sotto Fulminacci (uno dei pochi che prova a dare dignità nuova alla parola cantautore), Colapesce & Dimartino con il loro pop stralunato, Coma_Cose (solo apparentemente rassicuranti), Ermal Meta con il suo essere un esempio raro di Pop intelligente scritto e cantato in maniera splendida. Rimangono la bella protesta de Lo Stato Sociale nella serata cover e tantissime voci, soprattutto femminili, interessanti ma senza un repertorio degno di questo nome. Rimane, tristemente, il solito modo dozzinale con cui spesso viene utilizzata una risorsa unica come l’orchestra. Rimane Orietta Berti: immobile in mezzo al palco che ti cattura con la sua voce antica. Rimane una Ornella Vanoni fuori gara che stupisce per sensibilità unita alla sapienza incredibile nella gestione del canto e della parola.
E rimane una domanda: ma da quando abbiamo così tanti metallari in Italia? E che vedono tutti Sanremo? E che votano lo stesso gruppo sino a farlo vincere? I ragazzi sono (o Sony?) bravi e si faranno, ma per adesso quel “fuori di testa” mi lascia perplesso.