Yes The yes album
1971 - Atlantic
È l’arrivo del chitarrista Steve Howe (proveniente dai Tomorrow, altra interessante band di psichedelia made in UK), a provocare il salto di qualità.
Il risultato è una pietra miliare nella storia della musica rock tutta, un capolavoro assoluto che, partendo dalla psichedelia d’origine, espande i confini del genere: sperimentazione, tempi dispari di derivazione jazzistica (più che classica, come nell’immediato futuro), country (lo strumentale per sola chitarra “The clap”), chess music (una teoria musicale rappresentata da diversi interpreti e compositori come John Cage, Wayne Shorter e Gryphon), e un tiro che è diretta evoluzione dell’approccio degli Who.
Il feeling rock è sicuramente la marcia in più di questo disco, che riesce ad unire immediatezza e sperimentazione come mai è successo ad un disco progressive. La sezione ritmica, formata da Bill Bruford e Chris Squire (con il fedele Rickenbacker 4001 e amplificazione Marshall), trasporta con una forza propulsiva inaudita, swingante e originale; da ascoltare l’introduzione di “Starship trooper” per il basso e tutta la struttura ritmica di “Perpetual change” per la batteria. La Gibson di Steve Howe è, insieme alla voce in falsetto di Jon Anderson (croce e delizia del sound del gruppo), il marchio di fabbrica degli Yes, un timbro anche qui molto particolare, colto e graffiante allo stesso tempo.
Il funambolismo strumentale e l’approccio free trovano un collante nell’organo hammond di Tony Kaye (che avrebbe abbandonato di lì a poco, sostituito dal più virtuoso – ma meno efficace nel dare spessore alle canzoni - Rick Wakeman).
I testi delle canzoni, in leggero anticipo sui tempi, si legano a tematiche fantascientifiche di grande effetto e, almeno all’epoca, modernità.
Quattro dei sei brani che compongono la scaletta sono classici assoluti, riproposti poi dalle diverse formazioni in cui gli Yes si sono periodicamente reincarnati. Oggi sono altri Yes ed è tutta un’altra storia (da un bel po’ di tempo), ma questo disco resta una testimonianza importante della sperimentazione musicale a cavallo tra i ’60 e i ’70, prima che la mania di contaminazione fra rock e generi “colti” diventasse manierismo e il desiderio di sincera sperimentazione si spegnesse, soffocato da suite chilometriche, testi pretenziosi, trucchi, maghi, nani, giullari e ballerine.
Qui no, qui è ancora grande musica.
“Don’t surround yourself with yourself / send an instant karma to me / don’t surround yourself” (“I’ve seen all good people”)