Vinicio siede al piano. Ma dalle tasche estrae e nelle tasche ripone, quando serve, ancora una volta un’orchestra, di fiati (gli ottoni di Frank London e Matt Diarrau dei Klezmatics) e archi, ma anche di strumenti giocattolo (quelli del franco-catalano Pascal Comelade, già al fianco di nomi come Robert Wyatt e P. J. Harvey), che restano a disposizione nelle mani del più grande illusionista del moderno cantautorato, cantore ed anzi evocatore di fiabe notturne a colpi dei suoi “ta…da!”. Nel suo settimo album di inediti, che ha superato in questi giorni le 50.000 copie, Capossela amministra una messa profana cantata, che origina un mirabolante caleidoscopio di personaggi e storie che suscitano ancora stupore o ridestano la malinconia. Questa volta però la sua è un’epica piccola, che dopo la grandiosità teatrale di “Ovunque proteggi” (2006), chiude i suoni in una scatola magica: si suona “in clandestinità”, in una giostra di tintinnii di bicchieri (il suono unico del cristallarmonio di Gianfranco Grisi) e di linee di piano da carillon che aprono il cuore, in cui si tira più volte la corda per ricreare l’incanto della filastrocca “Il paradiso dei calzini”. Dopo tanti indimenticabili spettacoli natalizi, in questo disco si celebra l’arrivo di “Sante Nicola”, che regala le parole per parlarsi in un mondo di solitudini raggelate nell’incomunicabilità e soprattutto quelle per parlare d’amore, ed ecco che Vinicio ritorna alla tragicità sobria e asciutta delle sue più belle canzoni d’amore, “Non è l’amore che va via” in testa: ci regala così vere preziose perle come la spoglia e cadenzata “Parla piano”, in cui anche archi e ritmica sembrano restare sussurrati, e soprattutto “Orfani ora”. Se la voce resta intima e vicina all’ascoltatore, lo spazio vuoto e disarmante in cui risuonano le percussioni e brividi fondi di piano gonfiano il respiro di questo brano, che non può che confermare che Capossela sia un autentico genio di straziate e disincantate ballate di disamore.
Se “Ovunque proteggi” suscitava mondi intorno a sé, “Da solo” racchiude microcosmi colorati, a tratti quasi crepuscolari, in una girandola di stati d’animo, come quella delle storie sciagurate de “La faccia della terra” raccontate con i Calexico, ciliegina sulla torta arrivata a completare il disco dopo un viaggio verso il West dell’America compiuto con sottobraccio i “Racconti dell’Ohio” di Sherwood Anderson. Le luci scendono piano per immergersi nei suoni lontani e gravi del cielo iracheno annerito dai lutti di “Lettere di soldati”, nuova “Guerra di Piero” capovolta nella tragicità di una condizione comunque coatta di “ingaggio”. E ancora dall’ “Offertorio natalizio per strumenti inconsistenti” del cantautore nato ad Hannover, risorge la struggente “Non c’è disaccordo nel cielo”, personalissima versione in italiano di “No disappointment in heaven”, inno del 1914 di Frederick Martin Lehman ascoltato da Vinicio nella versione del jazzista Jimmy Scott. Se al loro paradiso ascendono i calzini spaiati e spariti, nel cielo del cosmo caposseliano non ci sono cori di santi e anime di cari scomparsi ad attenderci, ma “le lacrime avute / quando siamo stati migliori”, che evaporano dalle preghiere quotidiane per riempire una concavità misteriosa come un grembo, a cui si farà ritorno senza poterlo scrutare.