Vinicio Capossela Ballate Per Uomini e Bestie
2019 - La Cùpa / Warner Music Italy
(...) Lasciare il reale ed entrare nel vero. Cronache dal post medioevo.
Il Medioevo, però, caro Vinicio Capossela, era, sotto alcuni aspetti, molto più evoluto di certe pieghe, e piaghe, del nostro postmodernevo, fosse anche solo perché il Medioevo non aveva ancora visto il Rinascimento, e l'Illuminismo, e le sacrosante Rivoluzioni, mentre noi non siamo giustificati nel nostro regresso.
Nel Medioevo invece sono vissuti anche Francesco, il poeta della Perfetta Letizia, Erasmo, il creatore dell'Europa, e Richart de Fornival, l'autore del Bestiario d’amore, sublime memorandum della nostra comune appartenenza alla specie animale.
E dal Medioevo, da quel Medioevo denso di pensieri e di filosofia, occorre ripartire, per guarire, dalla peste che lo sta attanagliando, il nostro evo malato, la nostra era Antropocenozoica, dominata dall'uomo e dalla sua cieca devozione alla tecnologia. Occorre ripartire, secondo Capossela, guidati dalla poesia, dalla musica, dalle visioni spirituali e spiritate della sua immaginazione, come quelle che propone nel suo ultimo (capo?)lavoro, Ballate per uomini e bestie, che, come il pungolo socratico, stimola le sinapsi, collega, accorda e disunisce, costruendo un affresco, mai tanto complesso e completo, della nostra eterna contemporaneità.
Siamo abituati, ormai, a percepire i dischi dell'artista di origini irpine come dei concept album, e, nel corso degli anni, a concepire il sospetto fondato che, titolo dopo titolo, Capossela voglia srotolarci una sorta di polittico in parole e musica, centrato sull'uomo, riflesso di un Dio nascosto, e incarnato in desideri animali, ma ricapitolato nei miti di tutte le epoche, da Nutless a Ulisse, dalla Medusa a Lord Jim, dal Pumminale a Sante Nicola, in un'enciclopedia santamente laica, dalle infinite sfumature musicali.
L'epopea continua anche in quest'opera, ma stavolta l'impresa è immane: riconnettere ogni suggestione all'attualità, rispettando anche il contesto storico a cui ogni traccia appartiene, e trasformando la precipua identità di artista, pur nella sostanziale fedeltà alla linea creativa che da decenni lo contraddistingue. E Capossela riesce nell'impresa, coadiuvato da un sodalizio di collaboratori, che vestono di suoni poliedrici la visione d'insieme, donandole consistenza e specificità.
Lo si era capito, già prima dell'uscita del disco, dal video del singolo, Povero Cristo, firmato dal regista palermitano Daniele Ciprì, con Enrique Iatzoqui, il Gesù de Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini, e girato interamente a Riace, città simbolo dell'energia necessaria, in questi tempi, per restare umani e non lasciare spazio alla bestialità. Anche la stessa confezione - cofanetto del disco, che svela un'amorevole cura per il dettaglio e per l'arte, e, successivamente, un ripetuto ascolto confermano la presa di posizione netta e politicamente alta di Capossela; in un mondo in cui molti pensano che i cantanti non debbano fare politica, il canto si innalza sopra le bassezze e le mediocrità di un mondo fatto del campetto del calcetto il giardinetto delle villette l’asfalto del manto stradale, e corre libero, come l'inarrestabile Giraffa di Imola, disadattata, fragile, eppure fortissima.
Dalle Grotte di Lascaux, che ci donano il ricordo ancestrale di un Uro ormai solo inciso nella pietra, fino al sacrificio diventato poesia di Oscar Wilde in Ballata del carcere di Reading, passando per lo struggente poetico lamento di La belle dame sans merci, l'uomo (e l'artista) Capossela affronta, con coraggio, le sfumature dell'eros e dello thanatos, colorandole di sonorità mai tanto ampie: nelle ballate (più intense che semplici canzoni), l'orecchio coglie una sapienza musicale millenaria, che non conosce appartenenze né confini, e incrocia preistoria e postmoderno, Medioevo e paganesimo, elettronica e acustica, con bodhran, marimbe, tammore, ciaramelle, tamburi a cornice, cori, liuti, flauti, fiddle, vielle, celeste, orchestra sinfonica, mellotron, archi, arpe, yodel, un'intera banda, oltre alle chitarre infuocate di Alessandro Stefana e Marc Ribot, al tocco sanguigno di Daniele Sepe, punk di Massimo Zamboni, extraterrestre di Vincenzo Vasi. Il tutto senza disorientare l'ascoltatore, ma, anzi, rivelandogli il cammino fra spazio e tempo. Le due facce di Capossela, tarantolata e intimista, colta e popolare, si fondono in un disco potente e compatto, che rivela e accorda, attraverso l'ambiguità del suo cantore, quella di ciascuno di noi.
Uomini e bestie, appestati e monatti, dunque, in cerca di un equilibrio, che Capossela pare suggerire nella sequela di orme minime, traccia madreperlacea di Lumaca, come scrive anche il Montale di Piccolo testamento, oppure nei Fioretti francescani, o ancora nella resistenza strenua alla peste della Rete e del let’s tweet again, o alle nuove Tentazioni di Sant'Antonio, dalla rassicurante, ma subdola, sembianza tecnologica; oppure, nella lettura aconfessionale, antidentitaria, e perciò tanto più efficace, del Vangelo del Povero Cristo, o nell'unità di diseredati, superflui, cacciati e inutili, che, come I musicanti di Brema, sognano un mondo nuovo, in cui l'amicizia e la musica possano rifondare la società su valori eterni, umani, e per questo dimenticati, in questo evo bestiale. Sogniamo anche noi, un po' uomini, un po' bestie, guidati dalle suggestioni di un artista visionario. E, se Capossela ci ricorda che intanto nel mondo una guerra è signora della Terra..., ci fa anche capire che gli anticorpi contro la peste sono stati inoculati: occorre riconoscere cosa non è inferno da ciò che lo è, diceva Calvino, e farlo crescere, e dargli spazio.