Tom Soloveitzik Korhan Erel Kevin Davis Three States of Freedom
2012 - Creative Sources
#Tom Soloveitzik Korhan Erel Kevin Davis#Derive#Suoni #Impro
Chamesh è invece un ‘classico’ della microtonalità non idiomatica contemporanea, il classico pezzo che per poterlo gustare su disco occorrerebbe prima essersi immersi in un live set – dovrei avere prima o poi direttamente da Erel delle delucidazioni sul funzionamento delle sue apparecchiature elettroniche. Poco male, dato che l’apparente stasi meditativa del pezzo, come anche la progressione delle masse sonore della successiva Shmoneh, o i chiocci, i secchi puntillismi, i graffi, i rintocchi di Shteim Esre, sono figli più che legittimi dell’estetica improvised music, da metà anni sessanta a oggi, così come Eser, con le sue corde nervose cui fanno da contrasto vibrazioni di sax la cui ricorrenza ritmica suggerisce una sensazione di circolarità, mentre i becchettii di Arbah, interpuntati da electronics e da più lievi ma concentrati sfregamenti lasciano spazio nella conclusiva Chamesh Esre a un suggerito, pastorale lirismo.
Fin qui potremmo dire che questo album rientra in quella categoria di opere che consolidano una pratica, un linguaggio, godendo del senso di una appartenenza a una storia trentennale e di una precisa modernità nelle soluzioni linguistiche, e consonante con quel che oggi l’espressività tutta va cercando – una tensione che conduca l’ascoltatore all’ascolto interiore – patendo, non per colpe proprie, né dei musicisti coinvolti, un background - in senso esteso, prendetelo come ‘mondo creativo’ – fatto di nicchie poco comunicanti e di ascoltatori spesso non necessariamente curiosi di alimentarsi al di sopra dei generi per creare propri fili conduttori di ascolto.
Per far capire al lettore, Three States of Freedom nasce da un tour che parte da Galata, in Turchia, l’ottobre del 2009, e finisce nell’estate del 2010 a Jaffa, dove il disco viene registrato. Nel mezzo, come il sassofonista Tom Soloveitzik ricorda nelle note di copertina, un raid Israeliano a Gaza, in cui nove cittadini turchi rimangono uccisi il 31 maggio 2010, la protesta da parte di una congregazione ultraortodossa contro la discriminazione scolastica voluta dalla Corte Suprema di Gerusalemme, e il calore che fonde i motori delle macchine durante i tragitti tra la capitale di Israele, Haifa e Jaffa. “Allo stesso tempo udibili e inaudibili, queste storie aggiungono un’altra dimensione al loro suono”, scrive.
Che la tensione sia palpabile, e sempre più presente mentre si procede lungo l’ascolto, determinando un azzeramento progressivo dei movimenti verticali a favore dell’orizzontalità, è evidente, come che l’intento e il risultato siano un tentativo di resistenza alla colonizzazione, a livello creativo e di intenzione, mediante un attraversamento. La direzione, piuttosto che verso l’erosione dello spazio esterno – la conquista, la ‘resistenza’ come la si intende in senso classico nelle musiche 'in opposizione', parlo per il lettore italiano – è l’apertura di uno spazio interiore, che però sappia descrivere quanto dell’esteriorità è penetrato, marcando segno.
E’ venuto tempo di fare un passo più in là, non lo dico (solo) a Erel, a Soloveitzik e al violoncellista Kevin Davis, ma è tempo di riconquistare quella dimensione verticale – e lo dico sapendo che un movimento creativo non nasce nel momento in cui si prende in mano uno strumento, e che tale compito non è solo di chi è artista e ‘creativo’, dato che, come scriveva poco meno di un mese fa il trombettista Stephen Haynes, l’audience, e per estensione, aggiungo, il mondo che la contiene, è parte attiva di detta creatività.