Tinariwen Elwan
2017 - Anti
Se il nuovo disco di questa storica band di tuareg sembra davvero raccogliere i frutti di una raggiunta maturità musicale, il passato difficile e debilitante, che li ha visti fuggire in un perenne nomadismo internazionale causato dal loro rapporto inconciliabile con il governo centrale del Mali e il fondamentalismo islamico (tre anni fa fu rapito il chitarrista Abdallah Ag Lamida), gli riconosce anche il pregio non comune di aver continuato a progredire in contenuti e identità artistica nonostante il percorso intrapreso fosse decisamente in “salita”, come rivela in un certo senso la magnifica e musicalmente simbiotica immagine di copertina. Provenienti dalla regione desertica nord sahariana del Mali, la band degli “uomini blu” si formò inizialmente a Tamanrasset in Algeria nel lontano 1979, mentre il loro esordio discografico avvenne molti anni dopo, nel 2001 con l’album The Radio Tisdas Session. Nel 2012 con Tassili è arrivato addirittura il Grammy Award per il “Best World Music Album”. Lo splendido compendio alla loro carriera è stato rappresentato due anni fa da Live in Paris.
I Tinariwen sono i massimi esponenti di quel genere chiamato Tishoumaren, chiamato anche “desert-blues”, che ingloba in modo personale sonorità world, blues, rock (con qualche incursione psichedelica) e le melodie tradizionali dei tuareg. Il genere ha anche altre realtà notevoli come Tamikrest, Group Inerane, Tartit, Bombino, Group Doueh, etc.
La formazione attuale vede ancora alla guida il cantante e chitarrista (armato di fender statocaster) Ibrahim Ag Alhabib, mentre si apprende come novità l’inserimento di strumentisti locali e la collaborazione con un gruppo berbero di musicisti Gnawa. Ma gli ospiti più conosciuti e sorprendenti (ma non certo musicalmente invadenti nel progetto Elwan, anzi) arrivano dall’occidente e rispondono ai nomi di Mark Lanegan, Kurt Vile, Alain Johannes e Matt Sweeney. Certi contatti sono anche frutto della loro fama internazionale acquisita con gli anni tramite la loro intensa dimensione live che li ha portati spesso in America ma anche nei Festival europei più prestigiosi (Glastonbury, Montreux, etc…).
Il nuovo album Elwan è stato registrato tra il Rancho De La Luna in California e ultimato nell’oasi marocchina M’Hamid El Ghizlane, mentre la produzione, affidata all’esperienza di Patrick Votan, si è rivelata un vero trionfo di equilibri sonori tradizionali/moderni al servizio di arrangiamenti essenziali ma stavolta alimentati da ritmiche più solide, corpose, quasi hasseliane (nelle percussioni).
L’anima profonda, ferita ma energica e fiorente di Elwan, pervaso ancora da tematiche sociali, politiche, ora anche filo romantiche tese al legame con le loro tradizioni e il loro popolo, pur mantenendo la loro caratteristica musicalità reiterata, rituale e vagamente ipnotica, da vero rosario del deserto, cantato in dialetto berbero con la tipicità del call and response e con i loro usuali incroci di chitarre, rispetto ai loro dischi precedenti, è composta da strutture più semplici, sobrie e lineari, un passo più lento, sicuro, affascinante, un sound più armonioso, magnetico, arcano e in particolar modo atmosferico.
L’ascolto del disco, diviso tra episodi elettrici e acustici, mostra una compattezza stilistica e qualitativa sorprendente dove scegliere i punti più rappresentativi sembra affare davvero esoso. Come poter dimenticare la partenza sovversiva e potente delle elettriche Tiwàyyen e Sastanàqqàm? O la successiva splendida confessione intimista di Nizzagh Ijbal ? Impossibile. Ma il colpo definitivo arriva con la superba sequenza centrale, il soffio cicatrizzante del disco composto da Imidiwàn N-Àkall-In (un sogno, un desiderio di pace per il loro popolo berbero), dal bellissimo estatico viaggio folk in crescendo di Talyat dove nelle liriche l’amore è visto come via naturale di salvezza ma anche come l’unica cosa in grado di farti davvero del male, e poi nell’omaggio compassionato alle donne della loro terra con la magica, acustica trance sahariana di Assàwt ; brani che riescono a comunicare emozioni e vibrazioni vergini, bianche, carezzate da sabbia purissima e cieli cobalto. Nànnuflày congeda il disco con interessanti richiami psichedelici e il finale contributo misurato e integrato di Mark Lanegan.
In mezzo a questo consolidato sound permeato da irrequieta vitalità e fascino esoterico, un’ornata veste blue dal forte profumo di ambra ci avvolge con un calore che si traduce in emozione e luminosa bellezza, a dimostrazione di una sinergia mai così compiuta (tra liriche, sonorità, melodie e vocalità) nel mondo del desert -blues sahariano; Elwan dei Tinariwen è un capolavoro di moderna popular music che ha saputo uscire dalla sua terra, ben oltre ogni suo tentativo precedente, ed evolvere dalla circoscrizione di un genere ad un contesto più globale, universale, un disco per cui vale la pena riservare un posto speciale nella nostra collezione musicale.