The Decemberists Picaresque
2005 - KILL ROCK STARS / ROUGH TRADE
Già dai titoli di questa band di Portland si può dedurre un’attitudine elaborata e fantasiosa resa ancora più particolare da certe solennità negli arrangiamenti e nelle orchestrazioni: i Decemberists partono dalla tradizione della musica americana nella sua accezione folk e popolare per prendere la via di un pop che non ha timore a rivelarsi nemmeno nelle sue sfumature britanniche.
È come se Colin Meloy e compagni avessero intrapreso un viaggio a ritroso nell’american music giungendo a riconoscere il debito troppe volte rinnegato con la madre patria britannica. Non si può parlare di novità, come tanto piacerebbe agli amanti del mondo indipendente, ma piuttosto di una musica fertile, colorata e libera.
Volendo fare dei paragoni, si potrebbero immaginare i Belle & Sebastian trapiantati negli States e nutriti a pane e folk oppure gli Okkervil River in una versione più kitsch e popolaresca. Il fatto è che, per quanto si sprechino parole, i Decemberists stanno imbastendo pezzo dopo pezzo uno scenario loro, come dei giovani studenti che si divertono a creare delle rappresentazioni con personaggi inventati prendendo a prestito tratti già preesistenti.
Potranno piacere o non piacere, certi loro sviluppi risulteranno forse enfatici ai fedeli conservatori dell’american music, ma bisogna riconoscere che hanno del coraggio: proprio perché si muovono verso il pop con un’impostazione che è più zingara e folk di quella degli Okkervil River e degli Wilco, rischiano di passare per dei tradizionalisti venduti, per dei mestieranti alla caccia di novità.
Niente di tutto questo: “Picaresque” è un disco libero nel suo mescolare e sviluppare. Tanto libero quanto suonato con coscienza.
Si comincia con la batteria e il piano che marciano spediti in “The Infanta” fino a quando gli archi dettano gli stacchi ad un pezzo araldo delle suite che si ritrovano poi lungo tutto l’arco del disco. Non sempre l’approccio fiabesco riesce a ravvivare, soprattutto nei pezzi più prolungati, eppure il risultato è sopra la media con la voce di Meloy, sospesa tra quella di Brett Anderson (Suede) e quella di un giovane Michael Stipe (R.E.M.), e la band che rinvigorisce i toni old time ridipingendo ballate folk con violini, fiati, tastiere.
Ogni singolo brano sembra uscire da una di quelle taverne frequentate un tempo da marinai: affiorano soprattutto “From my own true love” e “The Mariner’s revenge song”, quest’ultima conclusa come una danza tzigana.
Alla fine è quasi facile lasciarsi convincere da queste leggende, anche se rimane il dubbio che qua e là i Decemberists si siano fatti prendere la mano nel tenativo di dare sempre più colore alla storia.