Sleaford Mods Key Markets
2015 - Harbinger Sound
E allora cosa sono gli Sleaford Mods? “It’s just punk”, avverte la speaking voice del duo di Nottingham.
Un avvertimento che suona come minaccia o resa dei conti. Del resto James Williamson non è mai nuovo a proclami antisistemici contro l’establishment politico inglese e l’impero del pop made in England.
E ce n’è per tutti: per Cameron e il suo governo di centro-destra, per Noel Gallagher, i Kasabian, gli Arctic Monkeys, gli Alt-J, i Blur e tutta la scena musicale che di quel governo, dice, è la colonna sonora. Ce n’è per tutti nelle interviste polemiche e nel cianuro che Mr. Fucking a iosa sputa nelle dichiarazioni ai magazine di settore, se non bastassero i tweet e la saliva che impasta i suoi testi declamati.
Ma del punk resta solo l’attitudine, una volta carbonizzati tutti i fronzoli strumentali del genere sulla griglia delle basi minimal di Andrew Fearn, machine-man degli Sleaford Mods e spalla sonora del più turbolento Williamson.
Riconoscibili per quel loro cinico miscuglio di punk e hip-hop già collaudato in Divide And Exit, restano tutto sommato nello stesso solco anche con questo nuovo Key Markets, altro monumento a linee di basso e batteria compulsate e a un linguaggio iperrealistico che parla di quotidianità reietta.
Eppure quello che ti aspetti trova sfogo in pezzi meno reiterati dei precedenti e quasi funky, come Tarantula Deadly Cargo (qui Williamson sembra un Peter Gabriel incazzato nero), anche se le scene da ghetto proletario continuano a puzzare di precariato e disperazione umana.
O nel rockabilly di No One’s Bothered (ma meglio chiamarlo di nuovo punk-hop, perché “il r’n’r inganna”) o ancora nella più sincopata e orientale Arabia.
Come al solito orpelli zero e tutto ridotto all’osso, per questi due profanatori del common sense borghese.
In Key Markets gli Sleaford Mods restano un mastino che sbava, ringhia e ti prende anche per il culo, ché loro la violenza non la approvano. Anzi sì, la approvano eccome. Ma non nei quartieri, solo contro il Parlamento inglese, contro i palazzi che decidono salari minimi da fame e rapinano le classi inferiori.
E che durino o meno insieme alla loro musica, sono una botta di reale trasgressione contro lo status quo fin troppo addomesticato del music business. Una botta di cui si sentiva il bisogno per scrostare la faccia sempre ultrapatinata dei manichini brit-pop e delle mummie luccicanti di certa musica mondiale.
Bianchi Public Enemy? Non si azzardano accostamenti. Ma già è sufficiente che siano enemies e che continuino ad esserlo ancora per un po’.