Simone Faraci Mføku
2023 - Slowth Records / Believe
#Simone Faraci#Italiana#Alternative #Avantgarde #Experimental #field recordings #Elettronica
Parte da lontano l’appassionata ricerca e sperimentazione in ambito musicale con cui Simone Faraci dirige il compimento di Mføku, suo secondo disco in solitaria. Non ingannino le fatiche ristrette al dominio in nome proprio: il musicista siciliano di stanza a Bologna, docente di Musica Elettronica, ha da raccontare un’assidua attività tentacolare, a partire dal fervido lavoro di improvvisazione al servizio del collettivo Minus, di cui è membro fondatore.
Le premesse sono assolutamente inedite per il panorama musicale domestico, e con sommo piacere si accoglie una pedagogia musicale anticonvenzionale. Il motivo è presto detto. Non ci vorrà poco per metabolizzare le saette lancinanti di Mføku I, piece di apertura, la sintesi perfetta della calligrafia di Faraci, adagiata su una partitura free, esacerbata ad anarchia, memore della spigolosa ed asimmetrica architettura in classico stile black midi. Lo stesso potrà dirsi nell’omonima traccia parte II, là dove si fa ancora più radicale una certa fisionomia prog/math-rock, di violenza abrasiva e febbrili sbalzi d’umore, per mano del risolutivo contributo alle pelli di Donato Emma, che espone l’ascoltatore alle piroette marziali a cui forse, di recente, solo l’iper prolifica Valentina Magaletti ha abituato (e, più addietro, il Glenn Kotche di Mobile).
Mføku III, a completamento del terzetto, ospita qualche interferenza rumoristica in più, black-out cesellati a dovere, tratto che segnerà inconfutabilmente l’essenza dell’opera tutta: da un lato, improvvisi ed intermittenti break di fonografia ambientale il cui effetto madelaine rimanda a colonne quali Pan Sonic, Murcof o Amon Tobin (in particolare, quello di Foley Room e Fear In A Handful Of Dust); dall’altro, il giudizio senz’appello di impavide chitarre al fulmicotone.
In Marusi vige invece la sperimentazione pura, e fa sì che l’alternanza succitata si elevi ad assoluta esperienza sensoriale (il cui acquietato punto di arrivo si inquadra negli strings dell’atto finale, Kjinu, prima che gli stessi si accartoccino, angosciosi, su stessi).
C’è persino qualche riferimento kafkiano (il testo in coda di Tokū, liberamente ispirato a Il Castello) e un concetto di noise enfatizzato sul finire di Nivuru, al punto di diventare groviglio di ronzii.
Nient’altro da allegare, se non il gusto di un’avanguardia evocativa raramente prossima alle nostre parti, presa com’è a fomentare pennellate di acusmatica e rumorismi (isolazionismo al bacio, appena più mite, per le fortune di una Ruster-Noton, tanto per dire).
Encomiabile, in definitiva, la perizia di avvicendamento fra scossoni elettrici ed elettronici (per i quali ultimi tocca il brivido di agitare Sua Maestà ARP Odyssey e istigare quell’arnese diabolico dell’op-1). Impressionismo musicale: fuori dall’oblò, il pastello rassicurante di paesaggi sonori; al di qua, il fragore, la tempesta, dove imperterrito regna il caos.