Ryan Bingham Mescalito
2007 - Lost Higway
“Mescalito” (che bel titolo, non possiamo non dirlo) è un disco sorprendente, autentico, genuino, che rinnova con gusto e classe la migliore tradizione roots americana: niente per cui si debba gridare al miracolo, intendiamoci, ma tanta è la sostanza, le buone intenzioni che non si può non restare indifferenti all’ascolto di queste canzoni. Il “miracolo” compiuto da Ryan, un giovane che si è dissetato alla fonte migliore (quella che stringe in un solo abbraccio Hank Williams e Woody Guthrie, Joe Ely e Terry Allen) è però quello di averci restituito integro e rinnovato un patrimonio, culturale e musicale, che in troppi hanno sperperato e abusato.
Anche se nella foto di copertina Bingham appare solo, bastano le note di “Southside of Heaven” per farci capire che questo suo viaggio è nato e proseguito in buona compagnia: prima con i musicisti che l’hanno ispirato e poi con quelli che l’hanno accompagnato. Ci sono poi due elementi a rendere ancora più importante questo album: la voce di Ryan, così stupendamente “impropria” per un giovane songwriter, e lo spettacolare uso delle chitarre, ed ecco diventare fondamentale la regia dell’ex Black Crowes, Marc Ford. Se si vuol fare un ripasso della tecnica slide, di cui lo stesso Bingham è ottimo esecutore, questo disco è una piccola bibbia, un ricco manuale. Virtuoso e mai lezioso.
Vien quasi voglia di soffiare sul cd, prima di inserirlo nel lettore, per essere certi che sulle sue tracce non sia rimasta depositata ancora un po’ di quella polvere del confine texano che avvolge “Boracho Station” e tutto il paesaggio che Ryan fotografa così bene. E, se c’è una linea in cui passato e presente si toccano, dove le vecchie montagne incontrano un nuovo cielo rosso, ecco, è lì, al tramonto, che Terry Allen e Ryan Bingham si passano il testimone cantando “Ghost of Travelin’ Jones”. Ora si che “Mescalito” può davvero continuare il suo cammino da solo, scendere dall’altra parte della montagna per incontrare un’alba luminosa. Quella che spegne le stelle della notte e lascia cuocere al sole un pugno di sporche e oneste canzoni come “Hard Times”.
Sul finire del 2007 avevamo proprio bisogno di un disco così.