Pippo Pollina L`appartenenza
2014 - Jazzhaus Records
Prendiamo questo nuovo L’appartenenza. Un monomaniaco dei cantautori come chi scrive ci ha trovato dentro echi deandreiani-degregoriani, fossatiani, persino contiani qua e là, però rivisitati/traslati in luce, forma e sostanza proprie. In altre parole: l’impronta personale di Pippo Pollina risulta evidente tanto quanto il sottotesto colto dei padri della patria cantautorale che l’hanno contrassegnata. L’appartenenza suona quindi come un album tipico in senso duplice: cantautorale e polliniano, se mi spiego. Tipico anche per peso specifico - temi, climi, coloriture musicali (accresciutesi in maniera esponenziale col tempo e nel tempo, vedi qui il sontuoso Preludio) -, con tutte le carte in regola dell'album coeso seppure cangiante, sfaccettato/stratificato seppure compiuto. Un album incantatore, che più lo ascolti e più non finiresti di ascoltarlo, credetemi sulla parola (o se no andate a recuperarvi il cd).
La parte alta della track-list, per esempio, attacca come si deve, consegnando alla memoria una tripletta da bomber. Comincia Mare mare mare (superlativa feat di Giorgio Conte), prosegue Laddove crescono i melograni (uno degli irresistibili amarcord cui Pollina ci ha abituati. Sulla scia canta anche Da terra a terra), chiude (si fa per dire) Anniventi, quasi un manifesto di ontologia minima. Giuro che il disco non finisce qui, meno che mai nel senso dei suoi passaggi sottili - ci sono, per esempio, Helvetia e Ti vogghiu beni, due modi altri e antitetici di parlare d’amore. C’è Cantautori, foto di gruppo di una generazione autoriale con tanto di nomi e cognomi. C’è Risveglio, in duetto con il cantautore tedesco Werner Schmidbauer. C’è E se ognuno fa qualcosa (che mutua senso e titolo da una frase di Don Pino Puglisi -, il fatto è che non mi piace spiegare troppo le canzoni. Meno che mai quelle di un disco che non necessita di traduzioni e si racconta benissimo da sè.
Un disco nel quale spirano la dialettica, lo spleen, la rabbia, i climi, i venti diversi/uguali delle due isole attorno cui si spende il microcosmo umano-artistico di Pollina: la Svizzera dove vive (e scrive e canta e suona) e la Sicilia dove è nato e da cui proviene (l’idea sui generis delle due isole non è mia: Fra due isole era il titolo del suo disco precedente). Oggi che ho perso molta della sicumera valutativa degli inizi (mi sembra di scrivere di cantanti & canzoni da tempo pressoché immemorabile) preferisco che i dischi bastino a se stessi e si illustrino da soli. Oppure per voce sola dei loro artefici, come, nella fattispecie Pippo Pollina, che così introduce al nocciolo del suo lavoro:
“L’esilio è quello spazio dove si realizza la comprensione della solitudine, quel luogo dove si impara ad osservare ogni cosa da una collina privilegiata ma irrimediabilmente triste: perché il bambino, in fondo, sogna l’abbraccio del padre e non la pacca sulla spalla del passante ammirato. Quel bambino un giorno diventerà un ragazzo che crescerà con quel vuoto che la sua patria o la sua famiglia gli hanno lasciato. L’esilio, però, sarà quella dimensione dove egli troverà risposte importanti, libero da giudizi e da influenze altrui. Dove potrà confrontarsi con realtà differenti, con modi lontani di intendere la vita”. Più chiaro di così. Poi, se proprio mi tocca dare voti (che fastidioso rituale!) facciamo un bell’8 e non se ne parli più.