Paolo Cantu’ / Xabier Iriondo Phonometak 10
2012 - Wallace Records
Per chi segue il duo dai tempi di Six Minute War Madness, A Short Apnea e Uncode Duello sarà interessante una immersione nelle distinte anime dei due musicisti, divise tra primo e secondo lato della presente uscita: tribale e sottilmente psichedelica, ma senza essere meramente descrittiva, quella di Cantù, archeosofica quella di Iriondo. In realtà, a un ascolto più attento, le sfumature espressive dell’album dimostrano di esprimersi su più livelli e di riflettere un’attitudine creativa comune a entrambi i musicisti.
Huljajpole apre l’album con un rituale di accordi agrodolci, per accumulo e stratificazione di segni chitarristici, disposti nello spazio in modo da intrecciarsi con sparsi accenti ritmici e intrecci vocali come echi, incoraggiando una pratica di recupero di musiche altre che non ricorre alla retorica dei field recordings, per concentrarsi invece su una rielaborazione personale; sulla medesima linea, The Big Bounce vede un bilanciamento che mette in primo piano le percussioni, adeguatamente trattate a scomporre la dimensione di ascolto verso irregolarità e spigoli che fanno emergere la materia vocale prima di lasciare spazio a una coda di incanto acustico.
Cosmetic Cosmic City è invece un rock bottom più ancestrale, quasi un magnifico spurio proveniente da un’epoca che in molti credono a torto conclusa, a dimostrazione di come certi esiti siano frutto di una attitudine nei confronti dell’espressività artistica prima ancora che una questione di sviluppo diacronico della storia della musica contemporanea; mentre Ityop’ya, coi suoi flauti in reverse, le sue sculture di percussioni e gli intarsi chitarristici mostra come certe lezioni di etnica ‘avant’ siano state assimilate e pronte per venire restituite in forma, si sarebbe detto un tempo, ‘espressionista’.
Il ‘lato Iriondo’ apre con The78RPM Legacy, montaggio quasi archeologico di reperti discografici per una Anthology post moderna su cui si innestano ‘field recordings’ e acide screziature di chitarre; l’afflato d’insieme tradisce un approccio alla materia sonora il cui diretto referente potrebbe essere il faheyano Requiem For Molly, con lo stesso effetto di scavo nell’archeologia, nella storia e nel ‘senso’. La finale Elektraphone Eta Euskaldunen Peloa Jokoa è una ambiziosa cosmogonia scandita da scene in cui suoni, effetti e registrazioni si mescolano, in una successione di contrazioni e espansioni, da cui si esce con la sensazione di aver assistito a un atto di consapevolezza e maturità capace di fare il punto su quanto sia possibile esprimere, oggi, in ambito di ‘ricerca’ sul suono.