Neil Young Fork In The Road
2009 - Reprise
Non ci sono i “Cavalli Pazzi” al suo seguito, e lo spirito del Canadese non sembra accusarne la mancanza; come da prassi tira dritto a testa bassa, senza peli sulla lingua, e via all’ennesima battaglia di giustizia e verità. Già definito, dalla critica americana, un flop come lo fu il suo “Greendale”, per la verità il disco si scosta di molto dal Neil Young abituè, si rivela a tratti un po’ come tirato su nell’ingenuità di fare pur di fare, di cavalcare l’onda new deal per fare notizia, e al quale – l’altra America - non gli perdonerà mai di aver sostenuto a spada tratta, tempo addietro, Ross Perot, braccio destro di Reagan e della sua politica nucleare. Ora siamo di nuovo a parlare dell’evoluzione del cantastorie a paladino, e il rockers sposa la tematica dell’inquinamento delle auto e della benzina come sangue infettante da locomozione; e per farlo spolvera tutto l’armamentario di suoni e di parole come sempre dettate dall’impulsività e dalla sua cocciutaggine da almanacco.
E il suono che esce dai solchi di Fork in the road, è quello pompato, pieno di ariosità e cromatismi, come se questa battaglia fosse già vinta in partenza, ma del resto Young ci ha abituato da sempre al suo modo bisontiaco di seguire l’istinto e di fare quello che gli sembra giusto, a non semplificarsi le cose. Quasi come se fosse dedicato a John Goodwin – detentore del brevetto del motore elettrico montato su auto Lincoln delle quale Young ne è uno estimatore da lunga data e al quale inventore dedica il southern-rock in “Johnny magic” – il disco esalta come sempre altisonanti attacchi rock di pura razza (Get behind the wheel, Hit the road), la west-coast sincopata (Couhg up the bucks), svia nell’honky-tonk da Baton-Rouge, e fa una capatina nella Detroit della Motown (Fuel line), Torna il Neil delle ballate da grandi pianure in “Off the road”, stupendo lentone di organo gospel, e in “Light a candle”, old Irish mood che ci fa stillare una lacrima evergreen senza che ci si rende conto.
Neil Young torna in pista con un episodio discografico che si può collocare tra i lavori “sospesi” della sua storia, che non lascia il segno come dovrebbe, che lascia il sapore in bocca di un progetto abbozzato in attesa di un nuovo Zuma, Harvest, After The Gold Rush a venire; ma rimane sempre un artista mustang di razza selvaggia che detta regole e compiti, un vero rockers che il tempo non abbatte, e se in questo album ha celebrato la velocità, la corsa e il consumo dell’automobile mancando di un pelo abbondante il centro, c’è sempre una grande lezione, una grande metafora del riscatto e della sete di libertà alla quale il “Grande Bisonte” a dedicato una vita, una chitarra contro. Anche nei momenti di confusione.