Neil Young Are you passionate?
2002 - REPRISE / WEA
“Are you passionate?” sembrava essere nelle premesse il disco del “dopo 11 settembre”, per via della canzone scritta sul dirottamento dell’aereo precipitato nei pressi di Pittsburgh e per la copertina carica di riferimenti sentimentali, come se il vecchio Neil volesse (o dovesse) trovare un sollievo alle pene del suo paese. Invece l’album spiazza chi si attendeva una raccolta di ballate dal sapore country e anche chi sperava in una nuova prova elettrica rabbiosa. Oltre al fidato Frank “Poncho” Sampedro, la band è stavolta composta dal gruppo di Booker T & the MGs: Booker alle tastiere, Steve "Smokey" Potts alla batteria e Donald "Duck" Dunn al basso.
Come già più volte successo nella sua carriera, Neil Young si rivela artista passionale e istintivo nelle sue scelte: dopo i concerti dell’estate scorsa con i Crazy Horse, arrivano ora un disco di pezzi rhythm’n’blues e una nuova tournèe con Crosby, Stills e Nash. Il vecchio orso dispone di tutta la libertà e di tutte le capacità per fare ciò che vuole, senza bisogno di calcolare le sue mosse, ma, in mezzo a tanti slanci, rischia anche di smarrire la lucidità e la follia che animano la sua musica.
“Are you passionate?” non è un brutto disco, ma è troppo medio: la voce roca di Neil e la sua chitarra arrugginita si perdono nelle malinconie soul create dalle tastiere di Booker e dai cori (ci sono anche Pegi e Astrid Young). Alcuni attacchi hanno i toni epici del migliore Young (“Mr. disappointment”, “Differently”), solo che i pezzi rimangono smorzati, senza quella scintilla che rendeva memorabili anche i passaggi più elementari del canadese.
“Don’t say you love me” ha una chitarrina ritmica da principianti e la title track è una ballata piatta che non riesce ad incantare nemmeno col piano, in cui di solito Neil è maestro con le sue note penzolanti. “Two old friends” addirittura è vittima di nostalgie e di buonismi imbarazzanti: l’incontro improbabile tra Dio e un predicatore è il pretesto per lamentarsi dell’odio che c’è nel mondo e dei tempi passati in cui l’amore e la musica erano ovunque. Anche “Let’s roll”, già diffusa in rete da tempo, è un blues banalotto che rende ancora più retorico il ricordo delle vittime del volo 93. Merita invece una nota di merito “Goin’ home”, non a caso registrata a parte, a San Francisco con i Crazy Horse: le chitarre spiegate ricordano “Cortez the killer” e anche il testo passa dalla storia al quotidiano senza staccare, mentre la ritmica continua a raspare una furia di cui non riesce a liberarsi. Bello anche l’intervento di tromba in “She’s a healer”, un lunghissimo blues che rimane però di normale amministrazione.
In definitiva, un disco molle, in cui Neil Young appare troppo indulgente con se stesso e con le sue canzoni. Certo, è sempre un disco di Neil Young, ma basta?