Michele Gazich Temuto come grido, atteso come canto
2018 - Fono Bisanzio / IRD
Bene lo sa Michele Gazich, uno degli artisti ed intellettuali italiani che da tempo è tra i più impegnati nella ricerca storica e nella trasmissione della memoria facendone uno dei cardini della propria musica e poetica; ricordiamo i suoi viaggi ad Auschwitz, sul treno della memoria, per suonare il suo violino in quel luogo sacro ma anche e soprattutto attraverso i suoi lavori più recenti come Verso Damasco (2012), Una storia di mare e di sangue (2014), tanto attuale visto che tratta delle peregrinazioni della sua famiglia tra oriente, Stati Uniti e Venezia, La via del sale (2016) e, in veste di produttore, Sentieri Partigiani. Tra Marche e Memoria dei Sambene (2018.
Per questa sua nuova fatica, Temuto come grido, atteso come canto, Gazich “approfitta” di Waterlines – residenze artistiche e letterarie a Venezia, un progetto internazionale di studi e confronti tra artisti e studiosi, si “chiude” per un mese in San Servolo, sull’omonima isola posta tra San Marco ed il Lido, già manicomio tra il 1725 e il 1978 (entrata in vigore della Legge Basaglia) e, ottenuto l’accesso a documenti e cartelle cliniche dei pazienti ebrei internati, a fronte di ogni storia ad esse riferita in quegli agghiaccianti documenti, ci scrive sopra, utilizzando nomi di fantasia, canzoni e testi di straordinario valore artistico e storico. L’epilogo di questa storia fu che l’11 ottobre 44 gli ebrei vennero “ritirati” come casse o sacchi pieni di disvalore e deportati nei campi di concentramento, molti di loro finirono i propri giorni nel lager nazista della Risiera di San Sabba (TS).
Ecco allora che, in un clima spesso volutamente claustrofobico, l’autore permette a quelle anime di palesarsi, di alzare la voce, mutare e trasformarsi da cartelle cliniche in pezzi di imperitura memoria. La narrazione è direttamente proporzionale alla drammaticità delle storie e spesso la compassionevole abilità compositiva di Michele, verosimilmente, ne attenua i contorni che di certo, su quei fogli ingialliti, devono essere ben più grevi.
L’isola è il luogo da cui non si può fuggire e nella storia dell’umanità, come ci ricorda l’autore nelle note, abbiamo un elenco interminabile di isole carcere, isole tombali. Lo racconta molto bene il protagonista della prima canzone, L’isola “.. Mai nessuno mi porta via / E consumo, consumo tutti i miei giorni / Corridoio, giardino, volano i corvi / La mia mente svanisce, marcisce il mio cuore ..” lo descrive con grande profondità in Maltamé, in antica parlata degli ebrei di Venezia, un vero gioiello di canzone, cantata da Gazich e suonata con la sua magica viola, a cui si sovrappongono inserti d’arpa, in aggiunta due strofe restituite dalla intensa vocalità di Rita Tekeyan, giovane, bravissima cantante italo-armeno- libanese. I brani andrebbero descritti uno per uno, vista la peculiarità di ognuno ma dovendo operare una segnalazione parziale, le canzoni che lasciano chi scrive con il fiato e le “note sospese” nell’aria sono: la meravigliosa Debora, forse il gioiello del lotto, Mentre il mare danza, una storia dal manicomio femminile posto nella vicina isola di San Clemente, vola alto il violino di Michele e splendide giungono le sottolineature pianistiche di Valerio Gaffurini.
Si segnala anche in chiusura, il valzer gentile Anna, te scrivo, dolcissima immaginaria missiva dall’isola, cantata in dialetto veneziano, che vede anche la partecipazione del grande Gualtiero Bertelli alla fisarmonica e voce.
Questo lavoro, valutato tra la recente produzione di Michele, è probabilmente il più suonato, infatti sono della partita, oltre allo stesso Gazich al violino, viola e piano, anche l’amico di sempre Marco Lamberti alle chitarre e bouzouki, Alberto Pavesi batteria e percussioni, Paolo Costola al basso. Gli arrangiamenti sono superbi, i testi frutto di una meticolosa tensione interiore e ricerca metrica, probabilmente, con questo disco, l’artista bresciano ha issato la bandierina sul tetto della sua produzione. Il cantato scava l’anima che lo emette e si perfeziona sempre più ad ogni disco ma poiché Michele Gazich è schivo ed esigentissimo, non vorrà mai autodefinirsi cantante anche se va detto che è certamente il miglior cantante possibile in grado di restituire profondità e rendere giustizia a questo rosario di perle, nere come la pece, strazianti come un grido di dolore e nel contempo chiare come la speranza che la memoria agisca come un mantra sulla storia presente ma soprattutto su quella futura.
Il libretto è ricco, riporta, oltre a un intro dell’artista che spiega il progetto, tutti i testi in italiano e tradotti in inglese dal maestro con la supervisione dell’immensa Mary Gauthier; la copertina e ogni testo fruiscono di una xilografia opera di Alice Falchetti nello stile espressionista tedesco.
Si legge da qualche parte che Temuto come grido, atteso come canto non è un disco “facile”, diciamo piuttosto che è un lavoro bellissimo e facile in rapporto alla sensibilità poetica e musicale di chi lo ascolta. Certo è che qui Michele Gazich, quasi fosse uno scalpellino della memoria, ha colto ancora una volta nel segno, e confidiamo abbia assestato un uppercut mortale agli agitatori degli spettri del passato. Noi ringraziamo.