Ho una simpatia istintiva per King Buzzo. E come potrebbe starmi antipatico? Ha un look assurdo, da fulminato del rock. È l’epitome del fulminato dal rock. Sui dizionari alla voce ´fulminato´ dovrebbe esserci la sua foto.
E mi piacciono i Melvins perché nell’ambito delle musiche pesanti, quando sono al meglio, si producono in un’ibridazione unica: prendete la ferocia e la velocità dell’hardcore, amalgamatele ai riffoni lenti di ascendenza sabbathiana, al drumming tribaloide e ad uno spiccato senso delle dinamiche che permette ai pezzi di mantenere sempre vivo l’interesse, infine aggiungeteci la voce di Buzz Osborne, che continua ad essere quella di un ragazzino che si scatena in garage.
A proposito della questione voce in questo disco: solo Buzzo ha il giusto ringhio mentre le altre due voci sono davvero goffe. Diversi pezzi, pur meritevoli musicalmente, soffrono di questo difetto che alle mie orecchie finisce per tirarli giù, perché se il titolare dà alle canzoni un sapore garage punk, l’impasto con gli altri sposta tutto verso una certa anthemicità hardcore o perfino la patetica possanza metal. Questione di sfumature, direte, e pure minime. Ma per me, nella fattispecie, fondamentali.
I Melvins al meglio, scrivevo. I Melvins di questo album però non sempre sono al meglio.
Arricchiscono la loro formula con diverse trovate anche curiose, un dato che può essere letto sia in positivo che in negativo: esplorano nuovi territori / la proposta mostra un po’ la corda. Questa attitudine sperimentale e naif corre lungo tutto l’album: The Water Glass attacca pesante come ai bei tempi e poi si sviluppa in un call&response sopra la sola batteria manco fosse Cab Calloway in Minnie the Moocher, ma senza tromba; e la coda di Hospital Up è un minuto e mezzo di gustosa follia. Invece sento un po’ di stanchezza affiorare nella personale cover di My Generation, che rallenta bene l’originale ma poi si spalma fiacca senza ulteriori idee. L’ultimo pezzo, che ho scoperto essere un traditional, li lancia addirittura verso regioni weird folk.
Alla fine emerge l´impressione di un disco di passaggio da cui magari trarre spunti per il futuro.