Mauro Ottolini e String Orchestra Nada mas fuerte
2024 - Azzurra Music
Mauro Ottolini (trombone, conchiglie, tromba bassa, tromba, flicorno) mette in campo tutta la sua apertura mentale, sia negli arrangiamenti di brani terzi, sia nelle composizioni di proprio pugno. Lo spettro si apre a un’importante ricchezza timbrica, a una sapienza ritmica che ben sfrutta certe inerzie dei suoi strumenti e a una ricchezza melodica che va molto oltre una semplice sensibilità folk di base.
Importantissima compagna di viaggio é Vanessa Tagliabue York (voce), un’artista decisamente contemporanea, già nota in testata per il suo Diverso, Lontano, Incomprensibile (2021) che ne aveva documentato le capacità di fondere sperimentazione, teatro e apertura a mondi lontani (qui la nostra recensione).
Con loro ci sono Marco Bianchi (chitarre), Thomas Sinigaglia (fisarmonica), Giulio Corini (contrabbasso), Paolo Mappa (betteria, percussioni) e Valerio Galla (percussioni); tutti più che eccellenti, senza eccezione alcuna.
A questo già nutrito gruppo di artisti va aggiunta la presenza della String Orchestra (violini, viole e violoncelli), il cui organico non si dettaglia, per evidenti ragioni di sintesi.
La scaletta presenta episodi del patrimonio messicano , cubano, calypso, arabo e jazz fino a pagine originali; il tutto all’interno di una cornice complessiva che, in via del tutto semplificata, può essere definita come “world”, pur di non equivocarsi cedendo a un'interpretazione antologica.
Ottolini capitalizza la sua esperienza maturata tra il classico e la ricerca di sonorità non usuali (quali quelle ottenibili con le conchiglie), tra il jazz e i repertori pop di ogni estrazione. La miscela è fulminante grazie alla logica con cui il tutto è legato, in un “va e vieni” continuo di umori e in un’organizzazione degli interventi studiata ed equilibrata.
Nonostante il notevole numero degli strumentisti a disposizione, in nessun momento la quantità prende il sopravvento; i ruoli sono sempre distribuiti in modo accorto e bilanciato, così che ciascuna voce viene apprezzata in un impasto corale. Frutto questo di un’evidente consapevolezza di quello che si sta facendo e delle fisiologie specifiche da evidenziare di volta in volta; in questa attenzione ai singoli elementi sta forse l'anima jazz del lavoro, anche se recondita e non in altorilievo.
All’ascolto pare di trovarsi davanti a un combo allargato e non a un’orchestra soverchiante; a tratti si avverte un tono concertante ma sono pillole di passaggio, in generale prevalgono le staffette che valorizzano le specifiche presenze.
La voce di Vanessa Tagliabue è sobria, austera e spontanea anche nei passaggi potenzialmente a rischio di artificiosità; le chitarre celebrano al meglio gli umori latini, evitando eccessi di acrobazie e preferendo la trasparenza delle tessiture; le parti ritmiche sono sempre chiarissime, sia al basso, sia alle percussioni, sostenendo le clavi e giocando sui tempi dispari utilizzati non per venature danzerecce, a favore di racconti intensi, sovente intimi e poetici.
Molti sono i momenti di interesse particolare; giusto a titolo esemplificativo se ne propongono tre.
Fatum, spagnoleggiante con un’intelaiatura alla Besame Mucho, in cui la logica della staffetta menzionata è evidenziata dalla frase inziale del basso; segue un trombone cullante e spiccatamente melodico, un sottofondo della fisarmonica perfettamente coerente, stacchi ritmici alla Paso Doble e un intervento della chitarra ad alto effetto poetico. Una chicca per la semplicità armonica su cui è innestata una ricchezza delle linee orizzontali davvero notevole.
The Wedding, brano di Abdullah Ibrahim, forse l’unico episodio tratto dal mondo jazz, anche se l’impasto poco ha a che vedere con l’approccio improvvisato. La pagina è fortemente evocativa; l’autore la eseguiva al piano solo, con un certo staccato tipico della sua sensibilità afro. Qui l’arrangiamento proposto sfrutta la molteplicità delle voci, tra cui da sottolineare quella della fisarmonica, in una sequenza più fluida, mediterranea, pur conservando l’intensità della scrittura originale.
Libertacao, forse il vertice del lavoro. L’intro della chitarra elettrica starebbe bene in un disco di Lou Reed per la scheletrica efficacia ritmica, il canto evoca le sfumature di un fado drammatico; un apparente ossimoro che si risolve in un effetto solenne e marcato. Archi, fisa, ottoni e percussioni fanno il resto, sublimando la nostaglia in un'esposizione corale. Una perfetta fusione tra elementi tradizionali e slanci contemporanei.
Senza alcuna retorica e in poche parole: da playlist di classe.