Art of the improviser<small></small>
Derive • Avantgarde

Matthew Shipp Art of the improviser

2011 - Thirsty ear

30/06/2011 di Gianpaolo Galasi

#Matthew Shipp#Derive#Avantgarde

Pensi al titolo del disco, The Art of the Improviser, e ti viene in mente Ornette. Vedi la copertina e non puoi fare a meno di pensare alla Blue Note, a quei dischi dedicati a musicisti come Andrew Hill, Sam Rivers, Bobby Hutcherson, che, tra le precise geometrie hard bop consociate e le più libere discorsività melodiche intrecciate dalla rivale ESP di Bernard Stollman, si erano ritagliate, a metà anni sessanta, un piccolo angolo che voleva essere una specie di via mediana tra le due correnti maggioritarie. Suggestioni (in realtà nella chiacchierata che gentilmente mi concede prima di un suo concerto Matthew mi suggerisce il sottovalutatissimo Mal Waldron come referente primario) che non tolgono fascino alla nuova fatica del pianista di Wilmington, classe 1960, un doppio album (un disco registrato in trio, l´altro in solitudine) che ribadisce la poliedricità di un musicista che, dopo i trascorsi al fianco di giganti quali David S. Ware e Roscoe Mitchell, e non ostante qualche polemica nei confronti delle dinamiche del mondo del jazz, ribadisce la propria inconfondibile statura.

Partiamo dal disco in trio, col nuovo bassista Michael Bisio (amante delle tinte spagnoleggianti, echeggia Jimmy Garrison sebbene il suo groove sia più sottile e più attento a produrre spazio tra un armonico e l´altro) e il fido Whit Dickey. Rispetto ai lavori in solo immediatamente precedenti, come Harmonic Disorder (Thirsty Ear, 2009), la musica del trio è maggiormente impostata a una immediata e lirica, seppur obliqua, cantabilità (laddove il discorso musicale dei lavori precedenti era teso a differenziare le soluzioni armoniche ricercando una maggior frammentazione del discorso melodico, alla ricerca di una tensione costante eppure ´sottile´) pur non mancando com´è ovvio ristrutturazioni in chiave dissonante (lo si sente soprattutto in una bella versione della ellingtoniana Take the A train), ma quel che si nota è soprattutto l´attenzione alla stratificazione, che si tratti di coniugare i diversi registri del pianoforte stesso, o dei tre strumenti insieme. Niente pause tra un brano e l´altro, spesso legati assieme da momenti di assolo di uno dei musicisti.  Virgin complex, con l´intrecciarsi di piano e contrabbasso archettato, chiude con una meditazione pensosa e attenta questo primo set, le spazzole a disegnare sfumature piuttosto che a tracciare ritmiche percise, come da sempre avviene con la musica di Shipp.

Il secondo disco parte con la composizone che intitola il precedente 4D (Thirsty Ear, 2010), e subito assistiamo a cambi di registro e di timbro importanti. Shipp è qui totalmente responsabile dell´equilibro della resa sonora delle composizioni, si sposta sui registri medio alti creando un´atmosfera più intima e si occupa di creare trame ritmiche più fratturate, sostituendo alle sovrapposizioni di colori differenti una spazializzazione del suono più introversa, che intreccia suono, risonanze e silenzio, e il gesto rapido (quasi che le cascate di note spesso prendessero forma da una gittata di pennello) alle pause, impreziosendo le melodie di abrasioni con figure rapide e iterative, spostando ma mantenendo costantemente in equilibrio il baricentro ritmico, la pulsazione.

Track List

  • Disc One
  • The new fact
  • 3 in 1
  • Circular temple #1
  • Take the a train
  • Virgin complex
  • Disc Two
  • 4D
  • Fly me to the moon
  • Wholetone
  • Module
  • Gamma ray
  • Patmos