Giunto alla soglia dei cinquant’anni
Mat Maneri sembra voler omaggiare tutto il suo mondo. Lo fa esprimendo un suono che fa della slabbratura precisa e controllata il suo marchio di fabbrica. Lo fa a partire dalla sua viola che non produce, per tutta la durata di questo
Dust, neanche un suono di viola classicamente definibile “bello” e lo fa, miracolosamente, senza intaccare minimamente la timbrica del suo strumento e ricercando una microtonalità affascinante e contagiosa. Sono 57 minuti di suono scavato e sofferto in cui emergono tutte le caratteristiche delle sue passioni e dei suoi studi. L’amato
Barocco studiato in gioventù che compare nella capacità di girare intorno ai temi. La lezione di
Miles Davis nella capacità di dominare un suono volutamente insicuro e fragile e di costruire una cantabilità solo suggerita e poi spezzata. L’amore per
Paul Bley e
Paul Motian, e per un ritmo suggerito più che espresso chiaramente; come se la sua incompiutezza ricercata e frammentata rimandasse, in tutte le architetture ritmiche e melodiche, ad una summa del loro lavoro. Onestamente un disco difficile, impossibile da ascoltare distrattamente! Anche al centesimo ascolto questo Dust non potrà mai essere usato come tappezzeria sonora in nessun momento della propria vita: questo disco va ascoltato! Questo disco rimanda e richiede una dedizione d’altri tempi verso la musica e questo basterebbe per consigliarlo. Un disco in qualche modo ostico, è innegabile, ma portatore di una bellezza criptica, sofferta (e talvolta giocosa) assolutamente mai casuale.
La coerenza musicale di tutta la band è poi incredibile.
Lucian Ban al piano emerge con tutte le qualità di pianista cresciuto probabilmente a pane e
Bartok (e poi
Bley, ancor più di
Jarrett, naturalmente) e col tempo capace di asciugare il gesto sonoro sino al limite e capace di far sembrare spesso il suo suono un solo suono con quello del bassista
John Herbert. E che dire di
Randy Peterson, batterista che si dimostra capace di lavorare in quel solco tracciato in maniera potente da un maestro come
Paul Motian riducendo, anche lui, il proprio suono verso una essenzialità ritmica astratta assolutamente sbalorditiva.
Tra i brani più belli di questo album (in qualche modo definibile di musica da camera free) l’apertura di
Mojave,
51 Sorrows con quell’intervallo ripetuto del tema che mi rimanda a
Somewere di
Bernstein da
West Side Story, l’omaggio al maestro
Motian, la spiritualità di
Two Himns e le chiusure di
Retina e
Dust. Musica astratta che non spinge mai sull’acceleratore e dove l’elemento improvvisativo la fa da padrone all’interno di una uniformità e coerenza, anche tonale, encomiabile.
Mat Maneri - viola
Lucian Ban - piano
John Hébert - bass
Randy Peterson - drums