Massimo Priviero All`Italia
2017 - MPC Records / Self
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Il contorno sonoro è conciso e funzionale all'intento principale di All'Italia, che resta in prima battuta l'urgenza di raccontare: la musica e le melodie sono al servizio delle parole, e questo è forse parte irrinunciabile del rischio di cui si accennava sopra. Ali Di Libertà era sicuramente più variegato e ricco, mentre qui si va dritti al punto, alla concretezza mai retorica delle storie e dei ricordi da non disperdere. C'è una base di folk-rock americano ma anche tantissima tradizione italiana. L'armonica fa vibrare il cuore a qualsiasi springsteeniano, ma il violino e la fisarmonica sono sempre lì, dietro l'angolo, pronti a sgusciare fuori come una nostalgica carezza. Perché la nostalgia affiora qua e là in tutti i pezzi, profonda e inestinguibile: la durezza con cui la Patria matrigna tratta tanti dei suoi figli è l'altra faccia della dolcezza delle sue genti, del suo clima, dei suoi paesaggi. Non si riesce davvero a odiarla fino in fondo quest'Italia, e chi dice di essere arrivato a tanto è un bugiardo.
Da Villa Regina alla bonus track Basso Piave scorre l'album – in bianco e nero e a colori – dei volti, dei luoghi, delle peripezie di chi All'Italia dice addio per sfuggire alla fame e alla disoccupazione (dell'altroieri e di oggi), per scelta o perché non ha alternative, violentemente sfollato (Fiume) o quasi cancellato dai terremoti e dalle alluvioni. Ma c'è anche l'autoreclusione sessantottina, in una baita alpina, di Cielo Blu, un pezzo acceso da un riff di violino che non fa prigionieri. O l'emigrazione a servizio di chi sta peggio nell'Africa di Mozambico, che un medico sceglie come ragione di vita: Priviero la narra – riecheggiando un po' Indipendence Day del Boss – con intima partecipazione, sorretto dalla fisarmonica e da sceltissime note di piano. Vola molto alta, forse al culmine di All'Italia, anche Friuli '76, quasi un talking sinistro e sussurrato, capace di rendere al meglio la forza maligna del sisma che si insinua tra vie e case, squassando l'innocenza di un quotidiano senza colpe. Berlino ha un tiro notevole, un autentico rock da strada tra accordi “nebraskiani” e più dolci colorazioni folk. Rinascimento e London si caratterizzano invece per scelte un po' diverse negli arrangiamenti: la prima sposta il mood del disco verso toni più allegri, con tinte irish e danzerecce, la seconda ha un taglio cantautorale più compiuto, sonorità più rifinite e ricercate e un bel crescendo nella melodia che ne fa l'ideale primo singolo.
All'Italia è soprattutto un lavoro commovente, duro ma in fondo ottimista. Il suo stile semplice e diretto mette in luce una qualità profonda dell'italianità: la capacità di affrontare con coraggio le avversità e i cambiamenti per tirarne fuori il meglio. L'appiglio da cui ripartire per arrampicarsi verso un futuro migliore si rivela sempre nei momenti più difficili. Il protagonista di Villa Regina guarda orgoglioso “la sua medaglia di un'estate sul Piave”, memoria di un'insperata riscossa, e il “maccarone” che coltiva la terra di Aquitania sa bene che “a travagliare siamo migliori/che a chi non ne ha basta del pane in più”. E in questo senso il disco dà anche il suo contributo alla riscoperta di una storia e di una comune radice nazionale, in un'epoca in cui – in politica come nel sociale – sembrano prevalere le forze divisive, che spaziano dalle superficiali contrapposizioni a colpi di slogan alle sterili polemiche da social network. “Non sono fascista non son partigiano/mettetevi in testa son solo italiano”, grida lo sfollato di Fiume: e forse questo può bastare.