A vent’anni dal suo esordio la band piemontese continua su quella via, che il cantante Stefano Sardo non esita a definire “dell’onestà”, quando presenta queste nuove otto canzoni “senza troppi abbellimenti”. Nell’ “ansiografia” contemporanea dei Mambassa, questo lavoro si presenta come una fotografia musicale delle paure, da quella della felicità a quella di verità che non aiutano, attraversando smarrimenti e perdite: questi pezzi narrano allora come si smarrisca la propria via e sé stessi in preda a un rancore che celava solo “un bisogno di amore” (Il centro dell’universo), si preferisca un’infelicità rassicurante pur di non rompere una relazione e di non buttarsi a capofitto in un’altra storia, che si mantiene nascosta e a latere quasi per proteggersi dalla passione e dalla vera felicità (L’altro), ci si faccia bloccare dalla paura di lasciarsi andare o dalla mancanza della “forza di osare” (Particelle), da desideri impossibili o dal timore di renderli realizzabili cambiando la propria vita. Ancora si parla di fragili equilibri sentimentali, tra piccole insoddisfazioni, incertezze e “piccole cose, che non vorrei perdere mai” (Una relazione), o delle distanze che separano ormai da qualcuno che non c’è più e che si può ritrovare solo nelle somiglianze osservate allo specchio in Rumblefish, dedicata da Fabrizio Napoli, qui voce solista, alla scomparsa del fratello, pure musicista, Giuseppe. Questo pezzo è il canto del cigno del chitarrista dei Mambassa, dai cui inediti ha preso le mosse il disco, ma che ha lasciato la band e oggi è sostituito dal vivo da una new entry preziosa, Gigi Giancursi, ex Perturbazione, già ospite in questo album. Si spera ovviamente il gruppo non soffra in futuro troppo per quest’addio, dato che nel frattempo Sardo ha avviato e continua una fortunata carriera parallela nelle vesti di sceneggiatore.
La linearità dei testi, spesso efficaci come un pugno nello stomaco, è comunque talora rischiosa, perché qui e lì corre il pericolo di scivolare nella banalità, ma musicalmente questi brani non lasciano alcun dubbio, tra melodie vischiose e agrodolci, che stringono nodi in gola di malinconia, e linee di piano che assediano e abbracciano come una nube di pensieri (tesi a proiettarsi ossessivamente nel futuro con apprensione, trascurando le esigenze del presente nella splendida Niente paura) o si fanno semplice e struggente carezza (v. la conclusiva Rumblefish). Il segreto della spinta e della forza emozionale dolceamara dei Mambassa risiede ancora negli arpeggi resinosi o languidi, che sono quasi un marchio di riconoscibilità, nella dolcezza delle sonorità acustiche più morbide e incantate (come quelle di sfondo in Dormi con me o nella bellissima Particelle con crescendo emozionali e ritmici di grande effetto), negli archi che dipingono atmosfere di ossimoricamente grandiosa, discreta malinconia o tra i bassi notturni de L’altro, nei tocchi di distorsioni che diventano quasi eco di quanto dentro fa rumore, o in certe sonorità che hanno il “coraggio” di riecheggiare intense e quasi “romantiche” (Una relazione).
L’ottimo pop raffinato dei Mambassa, delicato e sfumato, spalanca finestre per guardarsi dentro e vedere le proprie inquietudini: anche se spesso esse non possono che fare male, il rimedio è già nel titolo Non avere paura. Come si ascolta in Niente paura, “non pensare mai / a quello che sarà / chiudi gli occhi ora / e pensa a cosa vuoi / Sopravviverai, / non avere paura”.